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Nel M5s si studia anche la carta Zingales per la Consob, e per questo ora Lannutti lo attacca

Valerio Valentini

Liberista populista, il prof. di Chicago ammicca da tempo al mondo grillino, che ora ha bisogno di un profilo come il suo. E subito il comitato a cinque stelle pro Minenna si mobilita

Roma. L’indizio rivelatore, la prova che davvero i Cinque stelle stanno pensando a lui – anche a lui, quantomeno – per la presidenza di Consob, è arrivata quando Elio Lannutti, il 19 gennaio scorso, ha iniziato, con la sobrietà che gli è universalmente riconosciuta, a bersagliarlo con tweet al veleno: “Processo S&P: chi era il consulente della difesa dell’agenzia di rating? L’economista Luigi Zingales, professore di Finanza all’Università di Chicago, incompatibile per qualsiasi seria Autorità che vigila sui mercati e sulla borsa”. Giudizio informato e non proprio disinteressato, quello del senatore del M5s: sia perché l’inchiesta scombiccherata della procura di Trani sul fantomatico complotto delle agenzie di rating – tutte assolte – ai danni dell’Italia era nata proprio su impulso del presidente di Adusbef, sempre a caccia di oscure trame di “incappucciati”, “rettiliani” e “illuminati” vari da svelare; sia perché Lannutti rimane attivo in servizio permanente, insieme alla Ruocco & Associati, nel comitato che fortissimamente vuole a capo di Consob Marcello Minenna che, per un bizzarro incrocio di destini, è stato consulente di quella stessa procura di Trani in un’altra inchiesta su un altro presunto golpe finanziario, quello di Deutsche Bank contro l’Italia.

 

Garbuglio di coincidenze del tutto accidentale, com’è ovvio, e però a suo modo emblematico: perché, al di là della lotta contro ai mulini a vento della finanza globale condotta dal pm Michele Ruggiero, quella di Zingales sembra essere davvero una figura un po’ antitetica a quella dell’ex assessore al Bilancio di Virginia Raggi. A partire dal fatto che, tanto Minenna è considerato non proprio affidabile agli occhi delle istituzioni finanziarie, quanto l’altro, invece, gode di una ottima reputazione a livello internazionale. E non perché Zingales non abbia mai accarezzato, e perfino fomentato sui media, le suggestioni più populiste in campo economico, compresa l’uscita dall’euro.

 

Nato a Padova nel 1963, laureatosi alla Bocconi come molti dei suoi possibili concorrenti per la presidenza della Consob (da Masciandaro a Dell’Acqua), e laureatosi summa cum laude – in controtendenza, dunque, rispetto al pensiero del nuovo “maestro” di Di Maio, quel Lino Banfi per cui anche basta con tutti questi “plurilaureati”, meglio puntare su un bel sorriso – Zingales consegue poi il dottorato al Mit di Boston e ottiene infine una cattedra a Chicago. L’incarnazione, insomma, di quei cantori del neoliberismo tanto deprecati dallo stato maggiore del M5s. Tanto più che nel 2011 partecipa perfino alla Leopolda, salvo poi prendere gradualmente le distanze da Matteo Renzi, deluso più che pentito. Fa in tempo a ottenere la nomina nel cda di Eni (2014), dopo essere già stato consigliere indipendente in Telecom, la qual cosa gli è stata puntualmente rinfacciata pochi giorni fa, sempre via Twitter, dall’infaticabile Lannutti, che pure l’8 febbraio aveva invece dato risalto alla denuncia che lo stesso Zingales lanciava sui vertici del cane a sei zampe (“Il più grave scandalo della storia della repubblica italiana”) con cui da tempo è entrato in conflitto, non solo giudiziario.

 

Perché Zingales, sulla cui promozione ai vertici di Consob ora qualche grillino di peso si sbilancia (“Sarebbe figo”), è un po’ così: nel “sistema” additato dai grillini come coacervo di indicibili nefandezze, e al contempo ribelle, fiducioso nei valori del capitalismo ma ostile ai capitalisti ( “pro market ma non pro-business”, dice lui ). Insomma, una personalità “del cambiamento” ma capace di offrire autonomia e competenza.

 

In questi anni è d’altronde riuscito a mantenere legami intellettuali con i “populisti” ora al governo per alcune sue prese di posizione: critica le regole fiscali europee; analizza le possibili vie per un’uscita più o meno consensuale dell’Italia dall’euro e finisce perfino, nell’aprile del 2016, col farsi ospitare dal Sacro Blog per parlare del suo libro “Europa o no?”. Blandisce i grillini pur senza mai elogiarli, apprezza alcune loro idee pur ritenendole un po’ sconclusionate. Nel marzo del 2017 loda l’intuizione sul reddito di cittadinanza, promuove sulle pagine del Sole 24 Ore un dibattito sull’opportunità di restare o meno nell’euro, che coinvolge – in maniera surreale – i migliori economisti mondiali e le star del web nostrano. A più riprese, a inizio 2018, si parla di lui come di un possibile ministro del Tesoro grillino. Lui smentisce, categorico. Il 6 aprile, poco dopo il voto delle politiche, promuove una alleanza tra Lega e M5s: “Se non altro potranno fare riforme radicali perché non sono legati all’establishment”. E lo dice nel cortile di Villa d’Este, al Forum Ambrosetti: a dimostrare, insomma, che lui contrario al sistema resta sempre, pur facendo parte di quella stessa élite (pro élite ma non pro establishment, direbbe). “Io, a Lega e M5s, una piccola possibilità gliela do”, affermava a Cernobbio. E chissà che alla fine non gliela diano anche loro a lui, una possibilità.

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