Giancarlo Giorgetti (foto LaPresse)

“Giorgetti non ha torto, Rousseau sì”, ci dice Guzzetta

Valerio Valentini

Parla il costituzionalista: “Presidenzialismo unica via, altro che democrazia diretta”

Roma. Eversivo, no, proprio non si direbbe: su questo almeno, a essere intellettualmente onesti, bisogna convenire. Ma un po’ eccessivo nei toni, magari, un po’ eretico? “Nemmeno”. Giovanni Guzzetta non si scompone né si scandalizza, davanti alle parole di Giancarlo Giorgetti. “Mi sembrano, al fondo, parole di buonsenso. In una politica che guarda sempre e solo al contingente, tutta ripiegata nella sua ricerca di consenso immediato, non si può che rallegrarsi del fatto che ci sia qualcuno che non disdegna ragionamenti di più lunga visione”. Il primo stupore, d’accordo, c’è stato: almeno per quei primi lanci d’agenzia in cui il sottosegretario leghista alla presidenza del Consiglio, ospite del Meeting di Cl a Rimini, sentenziava sull’“inutilità del Parlamento”, quasi a voler ripetere le profezie lanciate qualche settimana fa da Davide Casaleggio, pure lui cantore dell’imminente morte di Camera e Senato. E qui pure Guzzetta, ordinario di Diritto pubblico a Tor Vergata, ammette che “sì, l’associazione è scattata involontaria” anche a lui, ma subito precisa: “Il fatto che due medici riscontrino la stessa malattia, non significa affatto che le cure da loro prescritte siano necessariamente uguali, e ugualmente inattuabili. L’analisi di Giorgetti non mi sembrava affatto un inno alla democrazia diretta, e meno male”. 

 

Anzi, a giudizio di Guzzetta il ragionamento del proconsole di Matteo Salvini “è quello di una persona che ha a cuore la democrazia rappresentativa, ma sa che per preservarla bisogna riformarla radicalmente, aggiornarla ai tempi”.

 

E dunque presidenzialismo: è questo che Giorgetti, ormai fin troppo a suo agio nei panni dello stratega, del vecchio saggio che tiene a bada i giovani indisciplinati, ha proposto – insieme alla riduzione del numero dei parlamentari e alla soppressione di una delle due Camere – per evitare che alla fine pure il Parlamento, ormai percepito come il luogo dell’inconcludenza della politica, venga “buttato via insieme a tutto il resto”. E Guzzetta, seppur nel mezzo delle sue vacanze in Grecia, a quelle parole ha subito reagito, lui che del resto – da insigne costituzionalista qual è – sta promuovendo la raccolta di firme per un referendum popolare per l’elezione diretta del presidente della Repubblica. “Ma non con l’alzata di ciglio moralistico di tanti perbenisti”, precisa lui, “per i quali la Costituzione va solo decantata, e mai cambiata”.

 

D’altronde, “che della crisi della democrazia sia preoccupato proprio Giorgetti, cioè un illustre esponente di uno di quei partiti che della crisi della politica si alimenta, è significativo”, ma è pure vero che la paternità dell’idea del presidenzialismo come antidoto allo svilimento della democrazia parlamentare è ben altra. Guzzetta recita quasi a memoria, o forse sbircia dalle bozze del suo prossimo libro, La democrazia transitoria. E insomma scandisce: “La democrazia, per funzionare, deve avere un governo stabile: questo è il problema fondamentale della democrazia. Se un regime democratico non riesce a darsi un governo che governi, esso è condannato”. Poi si ferma, con abilità attoriale: “Non è mica Giorgetti, questo. E’ Piero Calamandrei: che sull’opportunità di una democrazia presidenziale in Italia si pronunciava già ai tempi della Costituente, mettendo in guardia dai possibili rischi di esecutivi deboli lasciati in balìa di coalizioni instabili”. Non fu ascoltato. “All’epoca si optò per il parlamentarismo: un sistema di governo debole retto da partiti forti. Ora i partiti sono ridotti come sono ridotti, e ci teniamo un sistema istituzionale inadeguato”.

 

Ma in un’Italia in cui perfino per l’istituzione della chiamata diretta da parte dei direttori scolastici si grida al “preside-sceriffo”, come può pensare, Guzzetta, che non si finisca per denunciare il presidenzialismo come la tentazione dell’uomo solo al comando? “Queste critiche sono figlie di una desolante ignoranza, non solo costituzionale. Sarebbe come ammettere che in Francia ci sia un regime dittatoriale”. Ma la Francia è la Francia. “E l’Italia è l’Italia, vero?”. Quasi s’inalbera, Guzzetta. “Finiamola con questo provincialismo. Questa convinzione per cui i cittadini del Missouri o della Normandia siano più preparati al presidenzialismo di quelli calabresi o brianzoli è ridicola. Questo è il vizio capitale dei nostri riformisti: pensare sempre che l’Italia non sia mai pronta. E’ proprio quest’idea, che pure a giudizio di alcuni è la causa dell’immobilismo, a giustificare la paralisi”.

 

Di svolta presidenziale si parla da sempre, e da ogni parte. Era un cavallo di battaglia della destra, animò le discussioni nella Bicamerale, è stato rilanciato anche da Matteo Renzi. “Ma sì, perché da noi si parte ogni volta tutti convinti nell’idea di ‘fare le riforme che il paese aspetta da dieci, venti, trent’anni’. E poi ogni volta, per le convenienze politiche del momento, si finisce per dividersi e mandare tutto all’aria”. Giorgetti si batté per il No al referendum del 4 dicembre; Guzzetta, che allora era convintamente sul fronte opposto, non nota l’incoerenza? “Non mi addentro nella polemica politica. Ricordo solo che anche in quel caso c’erano dichiarazioni d’intenti comuni, all’inizio: poi Renzi personalizzò la campagna referendaria, i suoi avversari la trasformarono in un plebiscito contro di lui. Ed è finita come sappiamo. Ora – prosegue Guzzetta – siamo reduci dalla più lunga crisi istituzionale della storia repubblicana: come si può non riconoscere che c’è bisogno di ripensare il nostro ordinamento costituzionale?”.

 

C’è un’ansia di plebiscitarismo, però, anche questo è innegabile. “In Italia la democrazia è sempre stata paternalistica: vigeva l’assunto per cui dovessero essere gli apparati dei partiti a gestire la complessità del reale. Oggi questo approccio non può più reggere, il tappo è già saltato. I rischi ci sono, va bene. Ma teniamo conto che la dittatura, di cui tanti considerano il presidenzialismo una sorta di anticamera, in Italia è sorta sulle ceneri di un parlamentarismo esasperato, come una risposta extra-istituzionale a una crisi che le istituzioni non seppero affrontare”. Analogie col presente: si prospetta davvero una deriva autoritaria? “Più che altro, l’oggi a me ricorda il ’94, l’avvento di Silvio Berlusconi e le grida disperate di chi additava la pericolosità del nuovo arrivato. Si diceva che avrebbe stravolto tutto, il limite semmai è stato di non essere riuscito a cambiare molto, e non solo per sua responsabilità, anzi”. Stesso rischio di questo populismo: l’inconcludenza? “Vedremo. Intanto, sarebbe utile tenere a mente che con Lega e M5s siamo di fronte a due populismi diversi. Quello del Carroccio è un populismo riconducibile nell’alveo tradizionale della destra radicale”. E quello dei grillini? “Quello è una grande domanda, reale, travestita da risposta”.