Corrispondenze da Weimar

Francesco Cundari

Teorie della cospirazione, fake news, antipolitica. Perché non è più così incauto il paragone con gli anni 30

Fino a pochi anni fa, qualunque paragone con la crisi di Weimar e l’ascesa del nazismo era generalmente considerato come il più banale e pretestuoso degli espedienti retorici. Le persone colte, in proposito, parlavano di “reductio ad Hitlerum”, intendendo il tentativo di squalificare in partenza, con un improprio e strumentale accostamento a Hitler, qualsiasi argomento dell’avversario. Sin dagli albori dell’èra internet, quando non esistevano ancora né i social network né le fake news, e le discussioni online si svolgevano nei newsgroup, gli smanettoni già parlavano di “legge di Godwin” (“A mano a mano che una discussione online si prolunga, la probabilità di un paragone con Hitler o i nazisti tende a 1”). L’inventore, Mike Godwin, voleva spingere le persone a pesare meglio le parole, a non usare il parallelo con il nazismo con leggerezza, a pensare almeno per un attimo a cosa era stato effettivamente l’Olocausto, prima di tirarlo dentro una discussione di nessuna importanza, e che certo niente poteva avere a che fare con fatti o persone di quei tempi. Perché questo era il punto di partenza da tutti dato per scontato: che ai giorni nostri un paragone con l’epoca del nazismo poteva essere solo un modo di dire, un’iperbole, un espediente retorico. Che queste cose, in occidente, non potevano più accadere e non sarebbero mai più accadute. E che pertanto nessuna persona ragionevole avrebbe potuto fare, seriamente, un simile accostamento.

 

C’è sempre la possibilità di tornare indietro, anche dalla più moderna, evoluta, colta e raffinata delle democrazie

Comunque la si pensi su tutto il resto, almeno quest’ultima certezza possiamo dire che è oggi definitivamente venuta meno. Dalla Gran Bretagna della Brexit all’America di Donald Trump, passando per l’Europa dei populisti e dei sovranisti trionfanti, le società occidentali sono piene di persone serissime che lo dicono e lo scrivono, sempre più esplicitamente: il mondo di oggi somiglia ogni giorno di più a quello degli anni Trenta. Problemi, toni e argomenti del dibattito politico ricordano sempre più da vicino quella fase. A cominciare, va da sé, dalle conseguenze di quella crisi economica mondiale che non per nulla si è soliti definire come la più grave dai tempi della crisi del ‘29. E se l’integrazione europea è stata a lungo presentata come la risposta agli orrori della guerra e la prima garanzia che quel passato non sarebbe mai ritornato, la sua crisi attuale sembra dire proprio questo: che quella garanzia può venire a mancare da un momento all’altro. Che il passato si diverte spesso a ripresentarsi, e non necessariamente in forma di farsa. Che c’è sempre la possibilità di tornare indietro, anche dalla più moderna, evoluta, colta e raffinata delle democrazie. Perché, in fondo, è già successo. E la più moderna, evoluta, colta e raffinata democrazia occidentale in cui tutto questo è già successo aveva un nome preciso, che in questi ultimi tempi è tornato a riempire i titoli di giornale: Weimar.

 

Non per caso, ad animare questo dibattito negli ultimi mesi, in America, è un libro di storia dedicato proprio alla crisi di Weimar e all’avvento del nazismo. Un libro in cui, naturalmente, non si parla della Brexit né di Trump, in cui Vladimir Putin o Viktor Orbán non sono mai nominati, e tantomeno si discute in alcun punto di crisi dell’Unione europea. Perché – lo ripetiamo – è un libro di storia, opera di un professore americano, Benjamin Carter Hett, intitolato: “The death of democracy” (“La morte della democrazia - L’ascesa di Hitler e la caduta della Repubblica di Weimar”).

 

Nella Germania degli anni 30 coloro che si battevano in difesa della repubblica apparivano “i difensori di un sistema corrotto”

“Ci interroghiamo sull’avvento del nazismo da quella che riteniamo essere una grande distanza. Diamo per scontato che i tedeschi degli anni Trenta fossero completamente diversi da noi, e che l’esame dei loro errori non farà che confermare la nostra superiorità. E’ esattamente il contrario”, ha scritto nella sua recensione per il New York Times Timothy Snyder (autore a sua volta di un libro dalla tesi non dissimile: “The Road to Unfreedom: Russia, Europe, America”). “Pur non facendo paragoni tra la Germania di allora e gli Stati Uniti di oggi, in ‘The death of democracy’, il suo raffinatissimo saggio sulla fine della democrazia costituzionale in Germania, Benjamin Carter Hett fa a pezzi queste rassicuranti premesse”. E a dire la verità, tra i paragoni che Hett si guarda bene dal fare, non sembrerebbero esserci – pardon: non esserci – solo gli Stati Uniti di Trump. Il nazismo, secondo lo storico, fu anzitutto un “movimento di protesta nazionalista contro la globalizzazione”. E così, anche prima che la Grande Depressione portasse la disoccupazione alle stelle, le tensioni dell’economia globale favorirono l’ascesa di politici dalle risposte semplici.

 

“Il nazismo – scrive l’autore nell’introduzione – fu una risposta al travolgente trionfo del capitalismo liberale globale alla fine della Grande guerra. L’ordine anglo-americano del dopoguerra aveva tenuto insieme l’austerità finanziaria (simboleggata dal pagamento dei debiti e delle riparazioni e dal ritorno al gold standard) con la stabilità della stessa democrazia. La logica della politica spinse gli avversari dell’austerità a divenire allo stesso modo avversari della democrazia liberale”. Ricorda niente?

 

Il nazismo, scrive Carter Hett, fu una risposta al travolgente trionfo del capitalismo liberale globale alla fine della Grande guerra

Casomai il messaggio non fosse abbastanza chiaro, è l’autore stesso a precisare che “pensare alla fine della democrazia di Weimar in questo modo, come il risultato di un largo movimento di protesta che si scontra con complessi meccanismi di autotutela dell’élite, in una cultura sempre più portata a forme aggressive di pensiero mitico e irrazionalità”, toglie alla vicenda quell’aspetto lontano ed esotico da bandiere con la svastica e soldati al passo dell’oca. “Improvvisamente, l’intera faccenda appare come qualcosa di vicino e familiare”.

   

D’altra parte, bandiere con la svastica, saluti nazisti e slogan contro gli ebrei non dovrebbero suonare così lontani ed esotici neanche al lettore americano di oggi, che li ha visti comparire in prima serata su tutte le televisioni del paese non più tardi di un anno fa: durante la manifestazione organizzata a Charlottesville contro la rimozione della statua di un generale sudista. Allora, il 14 agosto 2017, un uomo si scagliò con l’auto sulla contromanifestazione organizzata dagli antirazzisti, uccidendo una donna, e il commento di Trump fu che non bisognava fare di tutta l’erba un fascio, che c’erano ragioni e torti “da entrambe le parti” (e ci vollero giorni di scandalo e polemiche perché il presidente degli Stati Uniti accettasse di rilasciare un secondo commento per condannare esplicitamente i nazisti e il Ku Klux Klan). Dettaglio certo meno importante ma sempre significativo, in quei giorni anche Mike Godwin, il succitato inventore dell’omonima legge, lasciava cadere l’ultimo velo di galateo sulla rete, e twittava: “Certo, paragonate queste teste di cazzo ai nazisti. Ancora e ancora. Sono con voi” (innescando peraltro una surreale discussione nelle repliche, come sempre accade su internet, con chi gli obiettava che paragonare i nazisti ai nazisti non avesse poi molto senso).

 

Sta di fatto che la discussione intorno alla crisi della democrazia non è confinata agli Stati Uniti. “Le differenze con gli anni Trenta sono ovvie – ha scritto due settimane fa Edward Luce sul Financial Times – Nessuno prevede oggi lo scoppio di una guerra. Non c’è un Impero giapponese, una Germania nazista né un’Italia fascista che si istigano a vicenda per fare a pezzi il vecchio ordine… Ma le coincidenze sono troppo inquietanti per essere ignorate. In Europa le forze della disgregrazione sono in marcia. Lo status quo fatica a organizzare una difesa”.

 

E’ chiaro tuttavia che in questo momento, nel mondo, l’attore protagonista del dramma risiede alla Casa Bianca. “Gli anni Trenta non si ripeteranno allo stesso modo, non siamo ancora a questo punto”, è l’opinione, non particolarmente tranquillizzante, di Robert Kagan, commentatore neoconservatore che fu tra i teorici dell’intervento di George W. Bush in Iraq. “Ma la gente tende a dimenticare che l’ordine del secondo dopoguerra è stato un’eccezione. Era l’America a tenerlo insieme. Con Trump, stiamo tornando a un mondo in competizione multipolare. E questo è un mondo molto diverso e molto più pericoloso di quello in cui siamo cresciuti”.

 

Di sicuro è un mondo molto diverso da quello che era sembrato dischiudersi all’indomani della caduta del Muro di Berlino. Quando, come ricorda Hett nel suo libro, ci crogiolammo nella luce abbagliante della fine della Guerra fredda e di quello che sembrava il trionfo definitivo della democrazia e del capitalismo liberale. Mentre oggi, tra nuove paure indotte dalla globalizzazione, ascesa dei populismi e crisi dei rifugiati, “da molti punti di vista, la nostra epoca assomiglia agli anni Trenta più di quanto somigli agli anni Novanta”.

 

E’ noto, del resto, che la Germania di Weimar era tutt’altro che un paese incolto e intollerante. Aveva il più avanzato movimento per i diritti degli omosessuali. Aveva un attivo movimento femminista che, avendo ottenuto il diritto di voto, andava verso il diritto all’aborto. Il movimento dei lavoratori si era guadagnato la giornata di otto ore. E la Germania degli anni Venti non era all’avanguardia solo in campo politico e sociale. Dalla pittura espressionista all’architettura del Bauhaus, dalla letteratura alla scienza, non c’era campo del pensiero e delle arti in cui non sembrasse primeggiare. In quegli anni Bertolt Brecht rivoluzionava il teatro. Il cinema tedesco, con registi come Fritz Lang e Murnau, si imponeva sulla scena internazionale. Per non parlare delle scienze, in un tempo in cui circa un terzo delle riviste di fisica al mondo erano scritte in tedesco, e a Berlino insegnava un certo Albert Einstein.

 

Come fu possibile, dunque, che nel cuore di una democrazia così illuminata, creativa, moderna, si affermasse d’improvviso la barbarie nazista? Hett offre diverse ragioni, dal trauma della sconfitta subita nella Prima guerra mondiale ai calcoli miopi di un establishment conservatore – militare, politico ed economico – che si illuse di poter utilizzare Hitler ai suoi scopi e ne fu invece travolto. Ma fu anche il successo ottenuto con la ripresa della Germania democratica, paradossalmente, che spinse le forze del nazionalismo antidemocratico verso una resistenza sempre più furiosa e disperata.

 

I grandi gruppi economici, ricorda Hett, volevano indebolire i sindacati. L’esercito voleva più armi. Gli agricoltori volevano la fine degli accordi commerciali che a loro giudizio stavano portando il settore alla bancarotta. “Le loro rimostranze avevano tutte una radice comune: il posto della Germania in un mondo segnato dalla sconfitta nella Prima guerra mondiale e dalla potenza economica britannica e americana. E indicavano una comune soluzione: spogliare il maggiore partito tedesco, i socialdemocratici, di ogni quota di potere”.

 

Un impasto di vittimismo e aggressività, ricerca del capro espiatorio e paura del futuro spianò la strada a Hitler

Ma la chiave per capire perché molti tedeschi sostennero Hitler, secondo lo storico, sta anzitutto nel “rifiuto nazista di un mondo razionale, basato sui dati di fatto”. Milioni di tedeschi si rifugiarono nelle “teorie della cospirazione”. A cominciare, va da sé, dall’idea che una “pugnalata alla schiena”, e non una semplice sconfitta militare, aveva segnato la fine alla guerra. “Il trauma della sconfitta spinse milioni di tedeschi a credere a una particolare narrazione della guerra non perché fosse oggettivamente vera, ma perché era emotivamente necessaria”.

 

E’ dunque questo impasto di vittimismo e aggressività, ricerca del capro espiatorio e paura del futuro, narrazioni autoconsolatorie e calcoli sbagliati, a spianare la strada a Hitler. Una trappola in cui caddero tanto i cittadini comuni quanto gli editorialisti più smaliziati. Un osservatore attento e ben introdotto, sorpreso dalla moderazione del primo discorso da cancelliere di Hitler, si domandava ad esempio se “il cancelliere Hitler potesse pensarla diversamente dall’Hitler acchiappa-voti”.

 

Certo pochi tedeschi, nel 1933, potevano immaginare quel che sarebbe accaduto di lì a breve, e l’autore rifiuta dunque di biasimarli per non avere previsto l’impensabile. “E tuttavia l’ingenuità li tradì, e sul loro futuro si sbagliarono in modo catastrofico”. E conclude: “Noi che veniamo dopo abbiamo un vantaggio: abbiamo di fronte il loro esempio”.

 

Inutile aggiungere che in questo gioco di specchi e di rimandi non sempre esplicitati alla politica internazionale, e alla stessa politica americana, non tutti i riferimenti possono essere sempre immediatamente evidenti per il lettore italiano. Come quando, ad esempio, l’autore osserva che per far funzionare una democrazia tutti i partiti devono riconoscere un terreno comune e ammettere che “i compromessi sono possibili e necessari”, ma negli anni Trenta “era rimasto molto poco di questo spirito” in una Germania sempre più divisa; sicché coloro che si battevano in difesa della repubblica apparivano “i difensori di un sistema corrotto”, mentre “gli avversari della democrazia, predicando una ‘antipolitica’ di unità e rinascita, potevano dare l’impressione di muoversi su un piano morale più elevato”. Non per niente Hitler fu entusiasta quando il teorico razzista Houston Stewart Chamberlain lo definì “l’opposto di un politico”. E il modo in cui nazisti si riferivano alla Repubblica di Weimar era “il sistema”. Concetti, come si vede, del tutto estranei al nostro attuale dibattito politico, e lontanissimi dal lettore italiano, che dovrà fare dunque uno sforzo di immaginazione per figurarsi concretamente un simile scenario.

 

O no?

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