Alessandro Di Battista alla presentazione del suo libro "A testa in su" (foto LaPresse)

Tutti scrittori

Valerio Valentini

Banali o anticonformisti di maniera. La mediocre Italia delle lettere. Viaggio con Gianluigi Simonetti nella narrativa dell’uno vale uno

Se gli si chiede chi accidenti gliel’abbia fatto fare, d’imporsi un simile martirio, lui si stringe nelle spalle, quasi a volere ridimensionare la fatica che ha accettato di sopportare: “Penso fosse arrivato il momento di fare un libro del genere, e l’ho fatto”. Tutto qui? “Ho rinunciato a prendere in esame solo la poca letteratura davvero meritevole: quella che, com’è sempre stato, produce capolavori solo di rado; ma ho rifiutato pure di censurare tutto il resto, liquidare con uno sguardo supponente la mediocrità che dilaga sugli scaffali delle librerie”. E insomma un po’ viene da ammirarlo, Gianluigi Simonetti, per il rigore e il metodo con cui ha analizzato la produzione letteraria – tutta, e senza preclusioni – dell’Italia degli ultimi decenni; e un po’ forse da guardarlo con sospetto, per la leggerezza con cui racconta d’avere attraversato centinaia di pagine di Federico Moccia o di Melissa P. senza subirne traumi. E un po’, infine, viene pure da maledirlo, per averci privato, almeno in parte, di quel confortante alibi a cui bene o male in tanti ci siamo spesso aggrappati, quando si voleva deplorarli senza neppure sfogliarli, certi libri, quell’idea per cui – “Non l’ho letto e non mi piace”, per dirla con Vanni Scheiwiller, e un po’ anche con Giorgio Manganelli – si potesse fare a meno, di prendersi la briga e sprecare tempo con la paccottiglia editoriale.

 

Con “La letteratura circostante” analizza “il paesaggio letterario di questi anni, non solo i monumenti, ma anche ecomostri e baraccopoli”

E invece con La letteratura circostante – uscito da poco per il Mulino – Simonetti proprio questo ha fatto: ha deciso di andare a immergersi, dice lui, “nel paesaggio letterario di questi anni, non solo i monumenti, ma anche gli ecomostri e le baraccopoli, o i modesti manufatti geometrili”; non omettendo alcun pezzo, di questo paesaggio; distinguendo il bello dal brutto ma senza chiudere tutto in un canone (cosa, quest’ultima, che tanti critici sedicenti militanti, col sopracciglio sempre alzato, gli hanno non a caso rimproverato). E così, a vedere quel Pasolini che, dalla parete di fronte alla sua scrivania, nella sua casa di Testaccio, lo guarda da sei diverse prospettive, il paragone, per quanto imbarazzante, s’impone immediato: viene quasi spontaneo pensare che Simonetti abbia compiuto uno sforzo in parte analogo a quello dello scrittore corsaro che, anziché giudicarlo dal chiuso della sua stanza, “l’inferno” che saliva amava andarlo a vedere da vicino, nelle notti allucinate tra le borgate romane. E dunque prendendoli sul serio, i pochi grandi libri, il molto ciarpame e la moltissima “letteratura di medio valore” che puntualmente, per anni, ha scalato le classifiche di vendita, ha visto davvero “altre cose, più cose”, magari vedendole in anticipo, di questa Italia grilloleghista?

 

Sorride, Simonetti, chiede se davvero lo si sta invitando a cercare delle omologie tra il paese letterario e quello politico. Poi comincia: “Se una corrispondenza devo indicarla, allora la prima che mi viene in mente è la paura dell’ignoto, della perdita di certezze facili: l’ansia diffusa di vedersi confermati, come lettori e come elettori, nelle nostre convinzioni. All’arte, quella vera, si chiede in fondo di farci divertire, certo, ma anche di farci scoprire qualcosa di nuovo. I grandi classici ci mettono sempre un po’ in crisi, sconvolgono le nostre verità. Oggi invece la narrativa nostrana, e non solo nostrana, tende verso una sonnolenta medietà: quella di chi ripete, mettendole in situazioni narrative, le opinioni comuni. E questo, certo, vale per la letteratura triviale, di consumo, quella che insomma, a suo modo onestamente, si propone di farci passare qualche paio d’ore di svago, e nulla più. Ma forse vale ancora di più per quella che, nel mio saggio, chiamo ‘nobile intrattenimento’, e che corrisponde grosso a modo a quello che Virginia Woof definiva ‘middlebrow’: insomma se penso a Margaret Mazzantini o a Paolo Giordano, penso a una trasgressione sempre ben temperata, un anticonformismo di maniera che mai ci tormenta più di tanto, una ambiguità piuttosto velleitaria cui corrisponde uno stile scorrevole e senza spigoli, che ci regali il profumo della cultura senza troppo impegnarci la testa”.

 

Dopo gli anni Settanta “prese a diffondersi l’idea che tutti potessimo inventarci artisti”. Una democrazia diretta del gusto

Eppure questa Italia di cui parla Simonetti, questa Italia terrorizzata dal peso della responsabilità che qualsiasi ipotesi di rivoluzione impone, è pur sempre l’Italia del “governo del cambiamento”, quella che ha scelto il salto nel buio piuttosto che il conforto della continuità. Simonetti scuote la testa: “A me sembra che in giro ci sia pochissima voglia di cambiare davvero. Anche certe fobie – aggiunge, quasi prevenendo la domanda che sarebbe scontata, nel giorno in cui alla nave Acquarius, col suo carico di disperati a bordo, viene vietato l’ingresso nei porti italiani – si spiegano col terrore di dovere cambiare le proprie abitudini. E allora la chiusura, l’orgoglio sovranista, altro non sono che la risposta a una voglia di stasi, di difesa dell’esistente che si presenta all’opposto come ansia di novità. Anche l’odio per l’euro e per l’Europa nasce dalla consapevolezza che essere fino in fondo come gli altri ci costringerebbe a ripensare molti dei nostri comportamenti. In questo direi che c’è un nesso evidente tra l’esplosione del ‘nobile intrattenimento’ e l’affermazione di partiti che continuamente invocano svolte e riforme radicali, ma che in realtà si fanno sempre portatori degli interessi di chi chiede moderazione. Il riformismo mancato di centrodestra e centrosinistra, fino a ieri; e oggi, l’estremismo a somma zero di Lega e Cinque stelle – Fontana che dice che la famiglia gay non esiste, Salvini che ribatte che sono pensieri suoi; Fico che difende i migranti, Toninelli che chiude i porti. Di Maio che parla d’altro. Tanto rumore per nulla. Le grandi aspirazioni sono crollate da tempo, sia nelle dispute letterarie sia nei dibattiti parlamentari, e con esse i propositi di cambiamento effettivo. Tutti vogliono avere ragione, gli scrittori e i politici; nessuno vuole stare dalla parte del torto, cioè della rivoluzione. E tanto più è invocata, questa rivoluzione, tanto meno è concreta: un po’ come la narrativa mediocre di questi anni, dove il fantasma spettacolare delle cose ha preso il posto della cosa in sé”.

 

E se però davvero esiste, qualche legame tra gli atteggiamenti mentali di chi legge – la pigrizia intellettuale, la ricerca di un rapido appagamento della curiosità – e quelli di chi vota, forse c’è da chiedersi se qualche analogia non vada riscontrata anche in coloro che, in entrambi i campi, svolgono il ruolo principale. Gli autori, cioè, e i politici. “Fin troppo scontato – osserva Simonetti – evidenziare che, innanzitutto, una parte non piccola del nostro ceto politico ha cominciato a scrivere romanzi. Fenomeno che appare inevitabile, se si pensa a quanto l’ansia della narrazione ha invaso anche la politica”. Non è un caso che, nella Letteratura circostante, qualche politico romanziere ci sia finito. “Parlo di Veltroni e del suo La scoperta dell’alba, sì. Anche perché trovo interessante la centralità, in quel libro, del ritorno del rimosso. Càpita ad autori grandi e meno grandi di finire col dire una cosa diversa da quella che si prefiggevano di dire in partenza. Ecco, Veltroni parla in continuazione di temi civili, allestisce una poetica delle piccole cose e dei buoni sentimenti tipica anche del suo pensiero politico; solo che poi tende in definitiva all’evasione fantastica, e all’angoscia. Discorso analogo per Dario Franceschini: il suo ultimo libro rivela quanta frammentazione e quanta voglia di essere altrove ci sia dietro i sogni unitari e di realpolitik ulivista”. E Di Battista? “Li ho sfogliati soltanto, i suoi volumi. E ci ho trovato un tasso davvero insopportabile di narcisismo, un abuso di cliché fastidiosissimo. Si tratta di operazioni propagandistiche e assai furbe. Anche come scrittore, direi che vale poco”.

 

“La narrativa nostrana tende verso una sonnolenta medietà: quella di chi ripete le opinioni comuni. Uno stile senza spigoli”

Ma al di là di questi più o meno sconfortanti esercizi letterari, forse c’è dell’altro ad accomunare gli scrittori e i politici degli ultimi decenni. Se è vero, come Simonetti mostra nel suo libro, che una delle caratteristiche della letteratura circostante, specie quella praticata da poeti e narratori che non superano i sessant’anni, è “un distacco progressivo e irreversibile dalla tradizione del Novecento” e da tutta la sua problematica eredità, viene da chiedersi se ad avvicinare scrittori e politici nuovi non ci sia il rifiuto della complessità come valore fondante del loro lavoro. “Di certo c’è che la modernità europea degli ultimi due secoli ha portato con sé una grande elaborazione teorica e critica, oltreché l’idea che la letteratura dovesse porsi ambizioni audaci e articolate. E non c’è dubbio che, da parte degli autori degli anni zero ci sia un enorme imbarazzo nel fare i conti con quella complessità, e una tendenza a reagire appiattendosi sul presente, a confrontarsi con un orizzonte globale. Con esiti evidenti sul piano della lingua letteraria, sempre più ‘presentificata’, ricca di connessioni con la cronaca ma povera di strati e di rapporti organici con la tradizione. E in questo rifiuto di pensarsi nella Storia, in questo generale sdoganamento della banalità per cui tutto ciò che è specialistico non solo è sconsigliabile perché poco attraente, ma addirittura fastidioso in quanto tacciabile di elitismo, sicuramente politica e letteratura si assomigliano sempre più”.

 

“Nel rifiuto di pensarsi nella Storia, nel generale sdoganamento della banalità, politica e letteratura si assomigliano sempre più”

E quand’è che tutto è iniziato veramente a cambiare? Dove sta la cesura? Ci riflette qualche secondo, Simonetti, mentre prepara il caffè (“shakerato, grazie, ché fuori si suda da fermi anche all’ombra”). E poi quasi s’illumina: “A pensarci, direi che anche qui le coincidenze sono sorprendenti. Altri libertini, di Pier Vittorio Tondelli, segna senz’altro una svolta. Diventerà un riferimento per molti epigoni: l’esaltazione della velocità, il racconto in presa diretta, il giovanilismo, la scrittura emozionale. Ecco, Altri libertini è del 1980: lo stesso anno della marcia dei 40 mila. Sia in letteratura sia in politica, sul finire degli anni Settanta si è avvertito il bisogno, in origine e in parte senz’altro giustificato, di liberarsi da una sovrastruttura troppo gravosa, da dogmatismi e schematismi cervellotici”. Di lì, poi, si arriva all’altra svolta, quella su cui peraltro La letteratura circostante si sofferma maggiormente. “Certo, l’inizio degli anni Novanta vede l’Italia confrontarsi con una cultura globale”. Sono gli anni dell’apertura all’Europa, della ricerca del vincolo esterno, e pure quelli di Lambertow l’Amerikano come premier. “E sono gli anni dei Cannibali, in Italia: narratori giovani, spesso esordienti, che i propri modelli letterari se li cercano soprattutto tra i romanzieri statunitensi, se non nei cineasti di Hollywood. A quel punto, il distacco rispetto alla tradizione nazionale viene esasperato”. Ma insomma a quel punto il cambiamento era già avvenuto: l’euforia per la letteratura come forma di “emergenza emotiva”, spontanea e dunque sempre legittima, l’affermazione di una sorta di “mito delle origini” per cui – come scrive Simonetti riferendosi in particolare alla lirica – “è sempre possibile, e anzi si deve, ricominciare ogni volta da capo, e ogni volta rinascere”, sono diventati dei dogmi. “L’omologia più evidente, in questa transizione, è quella della demonizzazione della delega. Accade sia in politica sia in letteratura, in modo abbastanza coincidente. Per tutti gli anni Settanta la partecipazione alla vita politica era stata di massa: ma il popolo aveva pieno rispetto della mediazione che, a vario livello, avveniva sia nei partiti sia nei sindacati. Qualcosa di molto simile succedeva anche nel dibattito letterario: il pubblico si faceva consigliare, veniva guidato, nella scelta dei libri da comprare, dalla società letteraria ristretta, cioè ad esempio dai critici che scrivevano sulle riviste o sui quotidiani”. Poi prese a diffondersi – dapprima in modo un po’ clandestino, poi in modo sempre più definitivo – l’idea che tutti, per un motivo o per l’altro, potessimo inventarci artisti, così come quella che in fondo dietro qualsiasi perdigiorno frustrato potesse nascondersi un possibile ministro della Repubblica – quegli “affanculo” di Aldo Piromalli sul palco di Castelporziano, anno 1979, che a risentirli ora troppo sembrano preludere a quelli gridati nelle piazze grilline. “Certo, tutti oggi possono fare politica così come tutti, ormai, possono scrivere un libro, visto che tra le altre cose il fenomeno dell’autopubblicazione permette a chiunque di vedere esaltate le proprie ambizioni, e tutti possono criticare e recensire, su Anobii o su Amazon. E insomma – insiste Simonetti, con un tono che si fa quasi involontariamente stentoreo – c’è stata una democratizzazione violenta della letteratura: se prima a decidere cosa fosse bello erano gli esperti, i pochi esponenti della società letteraria, oggi il successo coincide con le vendite, e le gerarchie vengono imposte a maggioranza: fosse anche la maggioranza dei motori di ricerca o dei social network. Una democrazia diretta del gusto: e come avviene in politica col grillismo, così anche in letteratura si finisce col premiare i dilettanti, per cui ai vertici della classifiche di vendita compare gente che fa altro, nella vita, che scrivere libri: penso a Fabio Volo e a Massimo Gramellini, e magari pure a qualche star della tv o a qualche youtuber, ché d’altronde uno vale uno – il contrario della vecchia idea per cui il grande scrittore è una specie di vacca sacra, talmente asceta da non somigliare a nessuno”.

 

Un inganno? “Sì, perché questa insofferenza per la mediazione è figlia di un travisamento clamoroso, per cui si crede che il superamento del professionismo sia una battaglia a favore del popolo”. E non è così? “No. La letteratura ha bisogno di intellettuali e di artisti non cialtroni, pochi ma buoni, non di un esercito di dilettanti: per andare costantemente oltre i suoi limiti, ma anche per servire veramente al suo scopo, che non consiste nel farci sentire più buoni o più colti ma nel dirci cose che non sappiamo e che altre forme di cultura non possono o non sanno dirci. La politica può e forse deve essere democratica, l’arte sicuramente no (anche se deve essere democratica la trasmissione del sapere); però anche la politica, mi pare, avrebbe bisogno di ragionare un po’ di più, ripristinare alcune delle sue antiche mediazioni, ritrovare i suoi intellettuali. A tutti servirebbe più silenzio e meno ego (contrariamente a quello che si pensa, la letteratura migliore nasce all’ombra dell’ego; ma questo non è vero anche per la migliore politica?). Le difficoltà della politica e quelle della cultura si riflettono entrambe nella crisi della nostra democrazia: l’equivoco è che siano il nostro individualismo, il nostro narcisismo, la nostra stessa mediocrità a essere democratici. E’ un’illusione che fa male, sia alla politica sia alla letteratura”.