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La lingua morente della politica (e non solo) italiana, zeppa di neologismi

Antonio Gurrado

Parliamo una lingua spietata che butta tutto ciò che non serve

Il bilancio di una lingua è sempre in attivo ma la crescita del vocabolario non deve ingannarci. Ne “L’italiano scomparso” (Il Mulino) Vittorio Coletti spiega che, nonostante il complessivo incremento dei lemmi e la preponderanza dei neologismi rispetto ai termini estinti, l’Italiano è una lingua spietata, che butta tutto ciò che non le serve. Il criterio è meramente utilitaristico: semplificare la lingua scartando le forme ridondanti. La peculiarità dell’italiano è tuttavia che, basandosi sull’autorità di testi compresi fra il XIII e il XVI secolo, un termine desueto è più probabilmente moderno che antico. La parola “applicazione” risale al Trecento e ha soffocato nella culla il cinquecentesco “applicamento” e il seicentesco “applicatezza”; nel 1956 fu inventato invano il termine “fosfino” per soppiantare il “fiammifero” utilizzato dal Quattrocento.

 

La politica è il principale agone di questa mattanza. Prendiamo termini come “forlaniano” e “doroteo”, desueti proprio in quanto moderni. Sono parole coniate per consentire una rapida comprensione al pubblico ma poi, spiega Coletti, retrocesse dall’uso comune al linguaggio ristretto di storici e politologi. Idem per “eurocomunismo”, “antiatlantista”, “ciccidini”, “equivicinanza” e “cafisti”. Questa caducità vale per tutti i termini con cui si cerca di piegare la lingua alle esigenze civili, come ad esempio “bullismo” o “femminicidio” (vincitore del derby col meno longevo “femicidio”): nonostante riscuotano successo come hashtag, un lessicografo non può che considerarli ultimi casi dei circa 700 termini che hanno ceduto sotto il peso del proprio suffisso innaturale. Una forma di autodifesa dell’Italiano è la potatura dei sinonimi, che fa prevalere nel tempo i più concreti, mentre la lingua dell’attualità si nutre di tentativi di accattivare un pubblico distratto facendo luccicare neologismi astrusi. Dal 1931 tutti sanno cos’è la “balcanizzazione”, ma il suo sinonimo “libanizzazione” (1981) è tramontato così come la “finlandizzazione”, che nel 1973 indicava la libertà sottoposta all’influsso di un vicino minaccioso.

 

In Italia la politica parla una lingua petalosa: non infiorata ma facile preda di conii e calchi che rischiano di svanire dopo rapida fortuna, come il termine floreale coniato dal bambino che commosse la Crusca. E così come “petaloso” fu individuato in un libro di botanica del tardo Seicento, così i termini introdotti dalla politica ripropongono sovente parole di cui si era già dimenticata la scomparsa, e che rispariranno con la stessa facilità. Coletti fa l’esempio di “ribaltone”, che fu condannato come segno di decadenza berlusconiana ma che De Mauro attesta al 1871. Una rapida ricerca su Google Books lo individua come sinonimo d’innamoramento (“nacque tosto un ribaltone in me”) in un dimenticato libretto di Giuseppe Foppa del 1802, mentre in età postunitaria il Riguttini lo ascrive alla lingua parlata nel senso “figurato di cose civili”. Fra i primi a parlare di “maggioranza” fu Boccaccio, che la utilizzava però in senso qualitativo e non quantitativo, ossia come prerogativa del sovrano anziché del popolo. E “populista”, che De Mauro attesta al 1919 facendone un calco del russo narodniki, lo trovate scartabellando già nella “Rassegna nazionale” per definire il People’s Party americano di fine Ottocento (più in voga allora era “papalista”, ossia chi seguiva i dettami politici del Pontefice).

 

Le perdite lessicali sono dunque frutto di un contesto sovraccarico e, piuttosto che un impoverimento, costituiscono un riordino in termini di maggiore fruibilità. Per questo certe formule politichesi di facile presa finiscono per avere la stessa valenza dell’imperativo tragico – “mi vendica!” anziché “vendicami!” – che originariamente serviva a esacerbare il pathos ma oggi comunica al lettore il fatto che in mano ha un libretto d’opera e niente più. Se il lessico civile vi suona artificioso, è perché in Italia la politica parla una lingua morta, composta in gran parte da neologismi.

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