Paul von Hindenburg, presidente del Reich della Repubblica di Weimar, alle sue spalle Hitler

“La democrazia poco amata”

Andrea Affaticati

Un audiolibro tedesco che racconta come si è arrivati (e con che parole) a Weimar

Milano. Qualche giorno fa Wolfgang Schneider ha scritto sulla Frankfurter Allgemein: “Di questi tempi, ripensare alla Repubblica di Weimar provoca un diffuso senso di angoscia”,  un malessere dovuto al timore che quel periodo possa ritornare seppure in forme diverse. Per molti commentatori, se ne colgono già le avvisaglie. Schneider prende spunto da un audiolibro appena uscito in Germania: “Die ungeliebte Demokratie”, “La democrazia poco amata” (ed. DHV, München), una ricostruzione radiofonica di due ore, curata da Hans Sarkowicz, responsabile di questa sezione al Hessischen Rundfunk. Il titolo va dritto al cuore di quel che fu, e di come è stata percepita la Repubblica di Weimar, durata dal novembre del 1918 fino alla presa del potere di Hitler nel 1933. Una ricostruzione storica di grande impatto, con molte registrazioni originali, tra cui anche molte di intellettuali, Thomas Mann, il regista Erwin Piscator, Bertolt Brecht, Ernst Toller, Alfred Döblin.

Quella democrazia parlamentare era stata poco amata perché sovvertiva l’ordine monarchico precedente ed era stata imposta dagli alleati. A quella imposizione ne seguì un’altra, ancora più dolorosa, quella delle riparazioni di guerra e infine era arrivata l’onta per la Germania di essere giudicata il paese responsabile del conflitto mondiale.

 

 

 

Furono innumerevoli gli scioperi, le rivolte, gli scontri tra le leghe (Bünde) di estrema sinistra, la più famosa fu quella degli Spartachisti, e i Freikorps, le milizie volontarie di estrema destra. Di fatto una guerra civile, anche se, come spiega nell’audiolibro lo storico Ulrich Herbert, autore del più importante lavoro sulla Germania nel 20esimo secolo: “Alla maggior parte dei rivoltosi non interessava tanto sovvertire l’ordine costituito, quanto reclamare una politica sociale più giusta”. Resta impressionante ripercorrere la radicalizzazione politica di quegli anni dovuta anche alla percezione, da parte delle classi meno abbienti, della distanza ormai incolmabile fra i vertici del partito socialdemocratico e l’esercito dei disoccupati. Tant’è che nelle elezioni del Reichstag del 25 giugno 1920 i socialdemocratici non ottengono più i voti necessari per designare il cancelliere. L’elettorato del ceto medio sterzava sempre più verso destra, quello proletario verso sinistra. Ma intanto, per contrastare l’estrema sinistra rivoluzionaria e in particolare i comunisti, il socialdemocratico Friedrich Ebert, presidente del Reich dal 1919 al 1925, si incontrava di nascosto con il generale Wilhelm Groener per avere l’appoggio dell’esercito. Le prime vittime furono Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, fondatori dello Spartacus Bund, entrambi assassinati nel gennaio del 1919.

 

Morti eccellenti sono state anche quelle del ministro delle Finanze Matthias Erzberger, assassinato nell’agosto del 1921 in seguito a una campagna di odio della stampa della destra nazionalista. Erzberger aveva sottoscritto l’armistizio ed era uno dei sostenitori del Trattato di Versailles. Assassinii dovuti all’odio cieco, come scriveva sulla Berliner Zeitung Carl von Ossietzky, uno dei più brillanti intellettuali e pacifisti dell’epoca: “Dodici colpi contro un uomo morto già dopo il primo. Non è stato un assassinio normale. E’ stato l’odio, la sete di annientamento a guidare la mano (...) Hanno ucciso anche un fantasma, una chimera forgiata della stampa nazionalista”. Poco meno di un anno dopo, nel giugno del 1922, cadeva sotto i colpi dell’odio anche il ministro degli Esteri Walther Rathenau.

 

Sempre Ossietzky metteva in guardia l’opinione pubblica, dopo il fallito golpe del 1923 di Hitler, dall’abbracciare “principi dittatoriali” solo perché non ci si fidava del sistema parlamentare. In effetti, erano in tanti a non vedere più l’utilità di questa democrazia parlamentare incapace di arginare soprattutto gli effetti economici più drammatici, prima l’iperinflazione e poi la grande crisi economico-finanziaria del 1929. L’iperinflazione aveva “liberato d’un colpo lo stato dei suoi debiti, ma gettato nella miseria più nera soprattutto il ceto medio”, ricorda lo storico Herbert.

 

Gli artisti si erano vieppiù politicizzati. Tant’è che il pittore espressionista Max Pechstein affermava per sé e la propria categoria: “Non siamo dei buontemponi. Anche l’espressionismo è una forma politica”. Ma era ormai troppo tardi per arrestare la deriva del paese verso la destra totalitaria. Arrivavano troppo tardi i vari Otto Dix, Käthe Kollwitz che nelle loro opere denunciavano soprattutto i patimenti delle fasce più deboli. E a nulla valsero gli appelli di Thomas Mann, non proprio un fanatico della prima ora della Repubblica (basti pensare alle “Considerazioni di un impolitico” del 1918, le cui tesi rigetterà solo negli anni Venti). Il 7 gennaio 1927 nel suo discorso “Alla gioventù” sottolineava quanto in un sistema politico sempre più bipolare il partito dei demagoghi si mostri ostile verso “il nostro, verso di noi che usiamo la ragione”, un’ostilità che difficilmente “potrebbe essere più aspra”. “E anche se noi siamo più sfaccettati, desideriamo cose diverse, una però ci unisce: non vogliamo che la stupidità irrida alle nostre vite, che prenda il sopravvento”. Il 30 ottobre del 1930, nella sua famosa “Deutsche Ansprache”, “Appello alla ragione” rivolto ai tedeschi Mann, definiva gli intellettuali di destra tirapiedi dei nazionalsocialisti . Inoltre puntava il dito contro il linguaggio guerrafondaio che nel frattempo aveva contagiato molti intellettuali e accademici: “Un idioma che si avvale di vocaboli mistico-deliranti come rassisch, völkisch, heldisch [razziale, nazionale, eroico] ... è una barbarie culturale”. Che fosse troppo tardi l’aveva capito invece Albert Einstein il quale, invitato nel 1932 a tenere una conferenza negli Stati Uniti decise di non tornare più. Ai posteri lasciava la seguente considerazione, sulla quel vale la pena ragionare anche oggi: “Mi riconosco negli ideali della democrazia, per quanto mi siano noti solo i suoi svantaggi”.