Matteo Salvini (foto LaPresse)

La riaffermazione della verità contro il “trentennio” sovranista

Giuliano Ferrara

Niente mobilitazione, niente fantasia. Gli intimiditi sono timidi ma il caudillismo italiano è pericoloso: va smascherato

Berlusconi non minacciava un tubo, veniva dal pentapartito, fu subito attenzionato (come si dice) dai pm golosi di supplenza politica, riformò il linguaggio nel segno della libertà e di un amor patrio femminile, soave, introdusse il maggioritario incarnandolo, prometteva mirabilie liberali e un paese accogliente per chi investe lavora e si rende produttivo, rese potabili e costituzionalizzati i neofascisti, che cambiarono nome immantinente, e i leghisti di Bossi, che erano ruvidi ma sani, e federalisti come si diceva allora, diede voce lui sì a un popolo di imprenditori che non esisteva o non aveva voce. Quanto all’Europa e alla politica estera, nessun cambiamento strategico, voleva piacere e fare le cose di sempre che avevano reso prospera la nazione indebitata tra le nazioni, il governo sempre traballante tra i governi dell’Unione eccetera. Eppure un minuto dopo la sua vittoria del 1994, anzi un minuto dopo la sua entrata in lizza politica, era l’Uomo Nero, era l’inaffidabile, il traditore delle buone sane vecchie abitudini della Repubblica, uno sdoganatore di fascismo e autoritarismo e conflitti di interessi da abbattere. Ora Wolfgang Münchau del Financial Times è un tipo dalle reazioni nervosette, ma se parla di “un’Europa come la Repubblica di Weimar” e attribuisce alla mancanza di paura di Salvini la massima responsabilità della turbolenza presente, bè, una ragione dalla sua ce l’ha.

  

Salvini non promette né ottimismo né bellurie, minaccia sfracelli e gasa un’idea posticcia ma di successo di popolo e populismo, si bea del suo successo presuntivo di uomo forte, ha un linguaggio del corpo che è il ritratto del caudillismo all’italiana, annuncia un regime di trent’anni, il trentennio, vuole dominare su istituzioni, leggi, convenzioni, a partire da quella del mare, ma non per la faccenda inaudita e gonfiata dei migranti invasionisti, piuttosto per scuotere e svellere il progetto europeo dalle fondamenta, avviando una dinamica di conflitto con le nazioni confinanti, di intromissione penosa e subalterna negli affari dei tedeschi, cercando con il lumicino della rissa autarchica e isolazionista ogni occasione di destabilizzazione: guarda con occhio orbo al Mediterraneo per centrare con precisione l’obiettivo a Bruxelles, a Parigi, a Berlino, in perfetta sintonia con Mosca e i suoi interessi, a cui si è legato in vario modo da tempo. E per far questo non mancano i fake, le sparate contro l’ebreo coi soldi Soros, contro la Coca Cola e il suo marketing, i froci gli zingari e i negher, e non ci si risparmia l’appropriazione indebita, cioè il furto, di vangelo e rosario, che stavano un tempo nelle mani dell’illuminismo cristiano di un Ratzinger e sono finiti stritolati tra le dita pseudodevozionali di politici e faccendieri esperti di cinismo religioso e ampollosi simboli che luccicano di disgrazia e integrismo.

 

Eppure non si muove una foglia. L’intervista di Zingaretti era piena di belle idee, ma dopo un reverente passaggio di ringraziamento a Salvini, che aveva concesso un placet benevolo al radicamento territoriale del presidente del Lazio e candidato Pd, ecco che lo stesso Zingaretti del ringraziato diceva, tre righe dopo, per descriverlo: xenofobo, autoritario, razzista della peggiore destra. 

 

Non si ringrazia uno così, mi pare. E ha ragione Francesco Cundari a dichiararsi contrario a un’opposizione omeopatica: o è vero che ci sono un’invasione e la miseria dilagante oppure no, nel primo caso si devono fare i conti con le ragioni dei nuovi potenti, nel secondo bisogna contrastarli con durezza e radicalità antagonista allo scopo essenziale di ristabilire la verità dispersa. Invece niente. Non arrivano i segni, i segni famosi dei tempi. Il tempo della resistibile ascesa vola, e niente belle né mediocri bandiere, salvo le benedette solite sventolate nei gay pride, niente mobilitazione, unificazione, niente fantasia per definire un perimetro chiaro, a parte le buone idee di qualcuno, entro cui riorganizzarsi a partire dalla volontà di riscossa e di riaffermazione della verità. Abbiamo voglia a ripetere che non dura, che i mercati e le circostanze internazionali li puniranno presto, che non combinano gran che e quel che combinano fa pena, abbiamo voglia a rispolverare dati e grafici sulle immigrazioni, sul lavoro, sugli effetti del Jobs Act, sull’occupazione femminile, intanto si consolida la logica ferrea dell’intimidazione, perché gli intimiditi sono timidi, una volta è il porto un’altra volta è la Rai o Mediaset, e la stampa naturalmente è come per Trump e Putin nemica del popolo. E niente di serio si muove, si dice che “siamo un’altra cosa” ma non siamo alcunché, un appello di professori indignati è benvenuto ma ha un valore circoscritto, una caratura ripetitiva, stanca, gli arabeschi del Congresso Pd sono incomprensibili senza lo sfondo di un’identità combattiva e da rassemblement, e stiamo lì a cavillare sulle opinioni di Rita Pavone e di Claudio Amendola, e non c’è straccio di persona, di maschera adatta alla recita del dramma, moderno quanto antico, capace di fare le smorfie giuste, di gettare il disprezzo della accanita vocazione alla dominazione, di significare rivolta e disgusto, altro che indignazione.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.