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Il morale delle truppe

Valerio Valentini

Come stanchezza e frustrazione dei parlamentari di Lega e M5s hanno spinto i leader a trovare un’intesa

Roma. Il deputato del Carroccio, già presagendo, compiaciuto, lo stupore che produrrà in chi lo interroga – un leghista che cita un cantautore raffinato, e per giunta di sinistra – cerca di scansare la curiosità dei cronisti canticchiando: “La morale della truppa è sempre quella che già sai, dice che senza una guerra prima o poi ti annoierai”. La domanda, in verità, era sul morale – al maschile – della pattuglia leghista. Ma la risposta data è a suo modo esaustiva, e racconta bene di come la filosofia del capo – o meglio del Capitano: come lo ha ribattezzato il suo social media manager, Luca Morisi – sia stata bene o male introiettata anche dai soldati semplici: “Matteo ci vuole in campagna elettorale permanente, e fa bene”. Pausa, sorriso. Poi il sorriso si tende in una smorfia, e il deputato sospira: “Solo che lui è un animale da comizio: lo avete visto anche martedì, tra la Toscane e la Liguria? Non perde un colpo, non sta mai fermo. Ma non tutti siamo come lui”. E insomma ci sono occasioni in cui anche l’ammirazione smodata degli estimatori, può trasformarsi, se non in una critica – ché criticarlo Salvini non si può, al momento: a proposito di logiche militaresche – quantomeno in una preghiera. Che infatti viene subito esplicitata: “Sì, speriamo che si chiuda”.

   

Auspicio a suo modo profetico, pronunciato nel primo pomeriggio del giorno risolutivo, quello che, dopo mille surreali travagli, sancirà la nascita del governo gialloverde. D’altronde, che il momento sia arrivato, camminando per il Transatlantico lo si deduce subito. Dai volti un po’ tirati dei pochi parlamentari presenti, dai commenti un po’ spossati di quelli che, a distanza, rispondono a telefono (“Anche oggi si fa un governo domani? Vi prego: siate voi giornalisti a dirci che non è così”), dallo straniamento con cui tutti compulsano tablet e smartphone per scorrere le ultime agenzie.

  

Perfino i leghisti, esibiscono la loro frustrazione. Perfino loro che, sulla carta, avrebbero tutto l’interesse a tornare alle urne. “Sulla carta, appunto”, precisa Gualtiero Caffaratto, piemontese, raccontando la sua voglia “di cominciare a lavorare davvero, per cambiare il paese”. E subito un suo collega, interrompendolo, arriva a elencare gli eventuali impacci di una nuova sfida: “E finanziati la campagna elettorale, e rimettiti a stampare i volantini, e riattiva i contatti sul territorio…”. Insomma, una rogna. E dunque anche se i sondaggi, a conti fatti, prospettano tra i settanta e gli ottanta parlamentari in più, rispetto a quelli eletti il 4 marzo, di entusiasmo, per un ritorno al voto, ce n’è ben poco. “E’ sempre un’incognita, tanto più che ci saremmo ritrovati a chiedere sostegno dopo una manciata di mesi, e magari anche con una coalizione diversa”. Di più: “Noi parliamo alla gente comune, certo, ma anche a imprenditori e liberi professionisti: e non sarebbe facile spiegare a chi ha un’impresa in Brianza, un capannone nella Bassa Padana, il perché di questo stallo, magari con lo spread che torna a salire”.

   

Non è un caso, del resto, che proprio nelle scorse ore, quando Salvini pareva solleticato dalla tentazione dell’estremo rilancio, forte della sua ipercinesia lucida e scriteriata, i colonnelli leghisti, forse per la prima volta, hanno alzato la voce. Lo ha fatto Roberto Calderoli, lo ha fatto perfino il fido Giancarlo Giorgetti, che già durante il consiglio federale di lunedì, seduto al fianco del segretario, continuava a mostrargli le ultime notizie che arrivavano dai mercati, quasi a volerlo indurre alla ragionevolezza. “Del resto abbiamo già ottenuto molto più di quello che sarebbe stato lecito sperare – ha ripetuto Giorgetti ai deputati a lui più vicini – tirare troppo la corda, ora, sarebbe un azzardo”.

  

Quanto a Luigi Di Maio, gli isterismi dei suoi parlamentari li ha potuti osservare bene, in questi ultimi giorni, fino all’apice del nervosismo raggiunto durante l’assemblea dei gruppi di mercoledì sera. “E i nervi li sta perdendo anche lui”, spiega un deputato assai vicino al capo politico, che ricorda la totale mancanza di lucidità mostrata domenica sera, “con quella folle proposta dell’impeachment a Mattarella”.

  

E allora si spiega bene perché, se gli umori tra i leghisti non sono troppo rilassati, nel primo pomeriggio, tra i grillini all’idea che l’intesa col Carroccio possa naufragare si reagisce con scongiuri di ogni tipo. E così non appena si diffonde la notizia che la nuova pietra d’inciampo sulla via del governo è l’eventuale ingresso nell’esecutivo di Giorgia Meloni, Carlo Sibilia s’affretta a dichiarare che no, “non ci sarebbe alcun problema: se Fratelli d’Italia condivide il nostro programma e se l’assegnazione dei ministeri avviene rispettando le proporzioni di voto, da parte nostra non ci sarebbe alcuna pregiudiziale”. Lo dice davanti a un caffè, Sibilia, e forse – come nota qualche suo collega maligno – lo dice anche perché lui “un po’ destrorso lo è sempre stato”; ma senz’altro nelle sue parole c’è una stanchezza sincera. Lo si capisce, del resto, anche dal sospiro con cui un compagno di Movimento, poco più in là, confessa che in fondo, “data la situazione”, se anche a Palazzo Chigi dovesse andare Gianacrlo Giorgetti, “non sarebbe una tragedia”. “Purché si chiuda – prosegue – va bene quasi tutto”.

  

Due ore più tardi, quando in un comunicato congiunto Di Maio e Salvini ufficializzano “l’accordo per un esecutivo politico guidato da Giuseppe Conte”, il Transatlantico, ormai quasi deserto, sembra respirare il suo sollievo. Tra qualche giorno si comincerà davvero, e a giudicare da quel che è stato il prima, quel che verrà non sarà propriamente rilassante. Ma almeno per ora, è tutto finito. 

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