Silvio Berlusconi (foto LaPresse)

Il negoziato degli equivoci (furbi) tra Di Maio e Salvini intorno al Cav.

Salvatore Merlo

I timori di un governo di Fico con il Pd renziano, le mosse di Mattarella che mettono fretta e le (in)disponibilità di Berlusconi

Roma. A un certo punto lo dice quasi allargando le braccia: “Noi siamo il Movimento cinque stelle”. E queste parole, sul sorriso stirato, sembrano significare che a lui piacerebbe poter fare la politica liberamente, gestire le alleanze, insomma trattare e negoziare come una persona normale… “ma siamo il movimento cinque stelle”. Così, uscito dal colloquio con Maria Elisabetta Casellati, Luigi Di Maio si rivolge a Matteo Salvini e gli ripete tutto quello che l’altro già sapeva e aveva già sentito nei giorni scorsi: “Noi abbiamo detto che eravamo disponibili a firmare un contratto di governo con Salvini. Abbiamo anche detto che quel contratto, quel governo, poteva essere sostenuto da FdI e FI, ma era chiaro ed evidente che oltre non si potesse andare”. E insomma Di Maio esplicita così l’offerta che però Berlusconi, nei colloqui privati, ha fin qui considerato sempre umiliante: l’appoggio esterno. Niente di nuovo. Se non che in realtà, il capo politico per ora sostenuto da Davide Casaleggio, per tutto il giorno ha cercato di convincere i suoi committenti e compagni di movimento che un modo per includere anche Berlusconi vada assolutamente trovato. Il primo passaggio è stato questo: l’offerta ufficiale di un posto da “esterno” necessario alla maggioranza. Il resto si vedrà, malgrado l’irritazione, ieri fortissima di tutti. Ed è d’altra parte per questa ragione che ieri mattina Di Maio aveva telefonato a Matteo Salvini prospettandogli un tavolo sul programma e opponendo al segretario della Lega parole interlocutorie e incerte, forse persino equivocabili, anche su Forza Italia. Le mosse di Sergio Mattarella, il lavorìo del Pd, nelle ultime ore avevano sempre più preoccupato Di Maio facendogli temere l’ipotesi non inverosimile che un accordo M5s-Pd avesse come cardine la sua sostituzione a capo del governo.

 

Leader senza partito e senza voti, Luigi Di Maio sa di essere ancora poco più di una pedina, dunque sacrificabile, nel gioco dei padroni del Movimento, Beppe Grillo e Davide Casaleggio. E allora quando il Quirinale ha lasciato capire che dopo Maria Elisabetta Casellati sarebbe toccato a Roberto Fico, cioè al suo avversario e alter ego, e quando nel Pd Matteo Renzi ha cominciato a dire ai suoi parlamentari più fedeli che “dobbiamo essere aperti a tutto” e che “se facciamo un governo con il M5s sarò io a farlo”, in quel momento nella testa dell’ex steward dello stadio San Paolo di Napoli dev’essere scattato come un interruttore, un grumo di disagio, uno strazio sottile, ovvero l’intermittente impressione di essere a un passo dal mancare la prova decisiva, dal perdere la scarpetta di Palazzo Chigi e tornare cenerentolo. E d’altra parte anche tra i deputati e senatori del M5s, in quei rivoli del dissenso muto che sempre attraversano il Movimento, e che fanno riferimento a Carla Ruocco e a Fico, era cominciato un cauto e pavido mugugnare riassumibile nella domanda, retorica e velenosetta: “Ma non è che il vero impedimento alla formazione di un governo è Luigi?”.

 

Così ieri mattina Di Maio si è deciso, e ha richiamato Salvini, quello stesso al quale, tre giorni prima, si era rivolto con toni sprezzanti e ultimativi: “Per aspettare i comodi di Matteo Salvini avremo il governo il 15 maggio?”, diceva in quel momento Di Maio, sentendosi al sicuro. “Aspetto qualche altro giorno, poi uno di questi due forni si chiude”. Ma questo accadeva settantadue ore fa, prima di Fico, Mattarella e Renzi, prima che tutti nel Pd cominciassero seriamente a ragionare sui termini di un negoziato che, come diceva ieri pomeriggio anche Walter Verini, a Montecitorio, “difficilmente potrebbe vedere Di Maio a Palazzo Chigi”.

 

Dunque ieri mattina: drin drin. “Ciao Matteo sono Luigi, perché non lasciamo perdere le poltrone e parliamo di programmi?”. Un’offerta alla quale Salvini ha risposto dicendo: “E Forza Italia?”. Al che Di Maio ha dato una risposta così interlocutoria, dunque possibilista, che Salvini si è precipitato a telefonare a sua volta al Cavaliere facendogli capire che “qualcosa è cambiato”. “Forse ci siamo”. “Ma bisogna aspettare”. Il problema è che anche Di Maio, dalla sua telefonata con Salvini, aveva ricavato l’idea che ci fosse un ammorbidimento da parte di Berlusconi, e che insomma il Cavaliere fosse in realtà disponibile a fare un “passo di lato”. Un incrocio di equivoci forse involontari, forse voluti da Salvini. Ma chissà. Dunque mentre Berlusconi, chiuso a Castello Grazioli, aspettava di conoscere l’esito dell’incontro tra Di Maio e Casellati, ripetendo intanto impassibile i cardini sicuri della sua posizione (mai appoggio esterno al M5s), nello stesso momento Di Maio scopriva dalla Casellati che l’unica ipotesi praticabile, anzi considerata “meno umiliante” dal Cavaliere, è che Forza Italia entri nel governo, senza i volti storici del partito, senza i dirigenti, insomma senza Brunetta, ma con dei “ministri d’area” e con dei sottosegretari politici. Un dialogo tra sordi, all’apparenza. Per il momento. Perché l’intreccio, e il gioco degli equivoci, rivela forse un’intenzione di fondo: quella di accordarsi in un modo o nell’altro. Ieri i cinque stelle erano sicuri che Berlusconi avrebbe ceduto, e si sarebbe fatto da parte. E Berlusconi era fiducioso che il veto sul suo ingresso al governo “in qualche modo” sarebbe venuto meno.

 

Probabilmente Di Maio, fosse libero di scegliere, accetterebbe anche subito questa ipotesi. Ma non è libero. “Siamo il Movimento 5 stelle”, ha detto ieri uscendo dallo studio di Casellati, quasi allargando le braccia. E questo mentre qualcuno ricordava le parole, anzi i vaticini pronunciati da Casaleggio il 23 marzo in un convegno a porte chiuse dal titolo L’economia reale e i nuovi scenari politici: “Ci vorrà del tempo, ma alla fine il governo con il centrodestra si farà. Forza Italia sarà presente con ministri tecnici, e forse senza sottosegretari”.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.