Luigi Di Maio ospite a Porta a Porta (foto LaPresse)

Contro la borghesia "En attendant"

Claudio Cerasa

Che fare con Di Maio e Salvini? La neutralità di un pezzo della classe dirigente di fronte al populismo sovranista è un fatto alla luce del sole. I rischi di un establishment in attesa (e non in marcia) e qualche appunto sul libro del direttore del Corriere

Una classe dirigente responsabile si può davvero permettere di essere neutrale in una campagna elettorale in cui si gioca il futuro del proprio paese? Questa domanda nasce dalla lettura di un libro importante scritto dal direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana, che pochi giorni fa ha pubblicato con Longanesi un saggio che vale la pena leggere sui “protagonisti di una classe politica in crisi”. Il titolo del libro è perentorio, Un paese senza leader, e la tesi del direttore del Corriere è forte e decisa, ed è sintetizzata in poche righe all’inizio del volume, con una presa di posizione che, se fosse stata esplicitata nel 2016, e non nel 2018, avrebbe fatto notizia: “Diciamolo pure con franchezza: anche se all’orizzonte spuntasse un leader, e al momento non se ne vedono, sarebbe subito neutralizzato da un sistema politico e istituzionale che sembra confezionato su misura per impedire l’ascesa di una nuova personalità e l’affermazione di una nuova prospettiva… Siamo arrivati al traguardo delle elezioni politiche del 4 marzo 2018 con un sistema frantumato, diviso, affollato di partiti che invocano le virtù del proporzionale… Penso che, alla fine, un sistema maggioritario a doppio turno che ha dato buona prova fino a oggi nell’elezione diretta dei sindaci fosse il migliore”.

 

Le parole di Luciano Fontana sono condivisibili al cento per cento, ma contengono un piccolo e non secondario difetto implicito che proviamo a mettere a fuoco con una provocazione legata alla domanda da cui siamo partiti: alla luce della considerazione del direttore del Corriere, una classe dirigente responsabile si può davvero permettere di essere neutrale in una campagna elettorale in cui si gioca il futuro del proprio paese? Il difetto dell’affermazione condivisibile di Fontana – il suo libro, al fondo, è uno splendido manifesto dedicato alla necessità di un ritorno urgente al maggioritario, unica condizione possibile per far maturare nel nostro paese dei Macron e non dei Micron – è che nel momento in cui l’Italia ha avuto con il referendum costituzionale del 2016 l’occasione di fare un passo in avanti per avere un sistema semplificato non più schiavo dei vizi del proporzionale un pezzo essenziale della borghesia italiana, anche quello rappresentato dal Corriere della Sera, ha scelto di fare un passo indietro, di non schierarsi, di disimpegnarsi e di rivendicare con orgoglio la sua neutralità.

       

Il referendum costituzionale è andato come è andato, la legge elettorale a doppio turno costruita su un sistema monocamerale ha fatto la fine che doveva fare, in seguito alla bocciatura di una riforma che doveva abolire il bicameralismo perfetto, e le parole di Fontana ci suggeriscono che probabilmente al prossimo giro, quando ci sarà da combattere per provare a esportare in Italia un pezzo di sistema elettorale sul modello francese, a battagliare non ci sarà solo un piccolo e straordinario giornale di opinione. Bene, ma non benissimo.

 

La lettura del saggio di Luciano Fontana ci offre infatti un altro spunto di riflessione che a pochi giorni da un altro voto che promette di cambiare la storia del nostro paese merita di essere messo a fuoco. E la domanda è sempre la stessa e oggi ci sembra più attuale che mai: ma una classe dirigente responsabile si può davvero permettere di essere neutrale in una campagna elettorale in cui si gioca il futuro del proprio paese? A pochi giorni dalle elezioni possiamo dire che tranne alcune virtuose eccezioni – vedi l’intervento anti populista e anti sovranista della Confindustria di Vincenzo Boccia a Verona la scorsa settimana – un pezzo importante della nostra classe dirigente, compreso il Corriere della Sera, esattamente come successe alla vigilia del referendum costituzionale, con le conseguenze ben spiegate da Fontana nel suo libro, ha deciso di non schierarsi e di presentarsi all’appuntamento elettorale del 4 marzo con un assetto decisamente diverso rispetto a quello scelto nel maggio del 2017 dall’establishment francese.

 

In Francia, ieri, la classe dirigente scelse di mettersi in marcia. In Italia, oggi, la classe dirigente ha scelto di mettersi in attesa. Di là, “En Marche!”. Di qua, “En attendant!”. E la ragione di questa scelta è implicitamente spiegata dallo stesso Fontana – ci auguriamo di essere smentiti nei prossimi giorni – in alcuni passaggi del suo libro: il nostro sistema elettorale non permette di avere leadership sulle quali vale la pena scommettere e in un paese senza leader è impossibile scegliere un leader su cui puntare e un leader su cui non puntare. Dunque, no “En Marche!” ma più semplicemente “En attendant!”. Fontana, sintetizzando molto bene un pensiero diffuso oggi in un pezzo importante della classe dirigente, svela una buona simpatia per il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, che per il Pd “in campagna elettorale è diventato il volto più presentabile e la carta più spendibile”.

 

Ma allo stesso tempo, passando in rassegna nel libro tutti i non leader presenti oggi in Italia, mostra una chiara non preoccupazione per un politico alla guida di un partito che in un paese normale sarebbe trattato non proprio come se fosse una copia poco riuscita di Emmanuel Macron. E così scopriamo che con Di Maio non siamo di fronte a un politico che rappresenta una minaccia per la nostra economia (dazi), per il nostro stato di diritto (gogna), per la nostra democrazia (Rousseau), per l’Europa (il comitato per il referendum sull’euro ha ancora in pancia migliaia di euro) e in parte per la nostra democrazia (Di Maio ieri, nell’indifferenza generale, ha ribadito di voler abolire uno dei pilastri della democrazia rappresentativa, l’articolo 67 della Costituzione, il diritto di ogni parlamentare di essere eletto senza vincolo di mandato, per rappresentare il popolo e non solo il capo di una srl privata).

 

Ma al contrario siamo di fronte a un politico tutto sommato rassicurante, che “nonostante lo stile un po’ andreottiano e qualche gaffe storica e grammaticale ha preso sul serio l’investitura di Grillo, che gli ha passato il testimone ritagliandosi il ruolo di padre nobile”; che a suo modo rappresenta “una mutazione genetica, almeno nelle intenzioni dell’aspirante leader, di linguaggio, programma e prospettiva, che chiudendo nel sottoscala del movimento la rivoluzione e le scie chimiche”; e che anche per questo non può essere trattato come l’AfD in Germania e come il Front national in Francia perché i grillini di governo “del populismo incarnano forse la versione poi pura, non inquinata dall’estremismo di destra e dal nazionalismo che dominano formazioni simili a livello europeo”.

 

Il direttore del Corriere lo dice non con il tono di chi sia sedotto da Di Maio – nulla di più falso – ma con il tono di chi non si sente in dovere di prendere una posizione forte per segnalare in questa campagna elettorale la presenza di un pericolo più grave di un altro – e non è il solo ovviamente. Ci permettiamo però di far notare al nostro amico Fontana che in realtà in questa campagna elettorale un pericolo chiaro esiste ed è per esempio il rischio che il 5 marzo ci sia una maggioranza formata da due forze politiche (M5s e Lega) che rappresentano il peggio della cultura politica italiana. Protezionismo, sovranismo, giustizialismo, nazionalismo, anti europeismo.

       

Il libro di Fontana si conclude infine con un auspicio: “La costruzione di una nuova classe dirigente consapevole delle sue responsabilità”. Il direttore del Corriere parla della politica e ha ragione. Noi oggi però parliamo anche della borghesia italiana e siamo sicuri che pensandoci un po’ anche chi oggi la rappresenta come il Corriere non potrà che darci ragione e non aspettare il 2020 per scendere in campo contro il peggio della cultura politica italiana. “En Marche”, non “En attendant”.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.