La pistola utilizzata da Luca Traini (foto LaPresse)

Macerata ha obbligato i partiti a un cambio di passo

Redazione

Dal Pd al Movimento 5 Stelle passando per la coalizione di centrodestra, nessuno è più dove avrebbe voluto essere

Nessuno fa la campagna che avrebbe voluto fare. E in fondo forse non poteva che andare così, in vista di elezioni che nessuno pensa veramente di poter vincere. Certo però i manuali per spin doctors andranno aggiornati, almeno al capitolo dove raccomandano di imporre la propria agenda e non farsi deviare più del necessario dalle contingenze dello scontro politico e della cronaca.

Da Macerata in poi, i Cinque stelle stanno esattamente dove non dovevano trovarsi, cioè al bivio dove si separano i loro due spezzoni di elettorato d’opinione, quello di destra e quello di sinistra. Il primo impulso di Di Battista e Di Maio era giusto e rivelatore, ancorché inapplicabile: silenziamo il tema dell’immigrazione, che ci obbliga a fare scelte di campo sostanzialmente ideologiche divisive rispetto alla genericità e alla intercambiabilità delle nostre posizioni. Sicché il M5s in questo momento è fermo al centro del ring, i suoi tradizionali temi anticasta e le sue improbabili ricette economiche rimangono marginali. Di Maio ha però due fortune. Primo: in una stagione dominata dall’incertezza e della diffidenza da parte degli elettori, i Cinque stelle sono quelli dotati del più consistente zoccolo duro di fedelissimi senza se e senza ma. Secondo: chi sarebbe in teoria nato proprio per recuperare consensi di sinistra sfuggiti verso Grillo, cioè Liberi e Uguali, si dedica anima e corpo a tutt’altra missione (far perdere Renzi) non mancando anzi, appena possibile, di offrire riconoscimenti unilaterali al M5s (Bersani).

 

Neanche Renzi svolge però il compito che, almeno a parole, si era proposto. Il messaggio che avrebbe dovuto caratterizzare tutta la campagna – “vota la squadra” – non arriva agli elettori semplicemente perché in realtà non è mai partito davvero. Fin qui, con l’eccezione dell’autoeclissi di Maria Elena Boschi, la campagna elettorale del 2018 non è molto diversa da quella europea del 2014 e dal referendum del 2016: one-man-show, tante slides e social, tutte le attenzioni concentrate sul tour del leader, il lavoro sporco delle polemiche quotidiane affidato ai suoi più fedeli.

 

Perché sta andando così, quando tutti sembravano aver capito che le speranze del Pd erano affidate viceversa ai volti e ai toni rassicuranti del premier e di alcuni (pochi) “diversamente renziani”? Qui le opinioni divergono: c’è chi imputa a Gentiloni e ai suoi ministri scarso impegno e combattività (col retropensiero che siano seduti in attesa di vedere il segretario sbattere la faccia il 4 marzo da solo); e c’è chi invece dice che Renzi alla storia del lavoro di squadra non ha mai creduto veramente, non può crederci perché il concetto gli è estraneo geneticamente, e non è minimamente capace di fingere altrimenti. Per di più, c’è il dettaglio non trascurabile che tutti i dirigenti ai quali si chiede ora di rappresentare il volto rassicurante e competente del Pd hanno visto decimare i propri amici e compagni nelle ore finali della formazione delle liste. Diciamo che una certa distanza da questa scadenza elettorale è il minimo che ci si potesse aspettare da loro. E che non ci si deve stupire se Graziano Delrio, per citarne uno, decide a un certo punto di scartare rispetto alla linea un po’ anodina tenuta da Renzi su Macerata, per posizionarsi molto più nettamente a sinistra.

 

Infine, la campagna della coalizione di centrodestra è talmente inconsueta da autorizzare ogni dubbio sulle reali intenzioni di chi la conduce. Contraddirsi platealmente e sistematicamente, fra Berlusconi, Salvini e Meloni, poteva sembrare agli inizi un astuto gioco delle parti per pescare consensi in due platee diverse di elettorato. Non è chiaramente più così, e l’effetto deve risultare straniante agli occhi dell’elettorato di Forza Italia, se fosse confermato che i sondaggi hanno visibilmente smesso di crescere. In più, anche nel centrodestra Macerata ha obbligato a cambiare linguaggi e atteggiamenti: Salvini e Meloni hanno un certo tipo di vento a favore, ma devono stare attenti a non esagerare per non rientrare nelle tradizionali dimensioni elettorali dell’estrema destra italiana. Berlusconi s’è coperto sull’immigrazione in maniera troppo improvvisata per risultare efficace. E in ogni caso non era certo questo il tema sul quale aveva deciso di puntare una campagna elettorale pensata, al contrario, per riproporlo agli italiani nel ruolo di anziano buon padre di famiglia, affidabile e rassicurante. No, neanche Berlusconi, per quanto sia dato in vantaggio, si trova oggi esattamente dove progettava di stare.