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Una campagna elettorale senza proposte, solo elargizioni

Le forze poliche che si candidano a gestire lo stato potrebbero non essere in grado di farlo, a giudicare dalle premesse

Professor Cassese, siamo a poco più di un mese dalle elezioni. Che cosa propongono le forze politiche all’elettorato?

Stabiliamo prima con che metro giudicare le proposte. Dobbiamo chiederci se cercano di risolvere i maggiori problemi italiani attuali e se indicano obiettivi da cui possa scaturire un raffronto con altre forze politiche, per poter diversificare l’offerta politica.

 

Quale è secondo lei il maggiore problema sul tappeto?

Non avrei dubbi: quello di agganciarci allo sviluppo, cosa che possiamo fare solo se riusciamo a diminuire il grande peso che abbiamo sulle spalle quello del debito. Come vuole che si ricominci a correre con un tale gravame pregresso? Per uscirne, esclusa una patrimoniale, non c’è che l’avanzo primario, che si può aumentare solo a patto di ulteriori risparmi di spesa pubblica (c’è ancora molto da fare) e di un andamento economico favorevole. Qui c’è il circolo virtuoso da innescare. Poi, se non si rimettono a posto i conti, come possono iniziarsi altre politiche, che richiedono necessariamente mezzi aggiuntivi?

 

Alla luce di questi parametri, come giudica le proposte delle forze politiche?

Non sono politiche pubbliche, quelle che vengono proposte, ma elargizioni. Oppure proposte in negativo, rivolte al passato: disfare quel che si è fatto. “No Jobs Act”, “No Fornero”. Con il progetto di colmare i vuoti di bilancio conseguenti mediante “eliminazione di sprechi e privilegi” (così i 5 Stelle), un’idea risibile quanto quelle avanzate a suo tempo da Rifondazione (imporre una patrimoniale sulla ricchezza).

 

Quali sono le ragioni di queste scelte, oltre quella ovvia, di allettare l’elettorato con caramelle?

Ve ne sono due aggiuntive. La prima: in un paese che non è riuscito in un quarto di secolo a darsi una democrazia veramente schumpeteriana ed è incapace di allinearsi autenticamente al modello kelseniano, dare indicazioni autentiche, rigorose, o meno generiche, costringerebbe a scegliere le alleanze, che tutti preferiscono tener aperte, oppure farebbe apparire le contraddizioni tra coloro che si stanno apparentando. La seconda: c’è una sottovalutazione fortissima di quella che viene chiamata “capacity based authority”, delle proposte politiche (e conseguentemente, del potere), fondata su competenza e reputazione. Siamo all’opposto di Condorcet: non “la vertu au pouvoir”, ma l’improvvisazione al potere. Come si spiega che l’84 per cento degli italiani non nutra fiducia nei partiti politici?

 

Da dove partirebbe?

Dalle politiche pubbliche, che vengono solitamente ritenute un non problema in Italia, e divengono visibili solo se legate a “clevages” partitici. Parlare di politiche pubbliche, da noi, è come parlare di astronavi che solcano i cieli andando da una galassia all’altra. Politiche pubbliche vuol dire per una forza politica posizionarsi sulla base di una “platform”. Poi, formulare indirizzi più precisi (all’estero di parla di “position papers”, di “green papers”). Infine, passare a formulazioni più analitiche. Se si arriva a governare, passare alla deliberazione e fare attenzione all’attuazione concreta.

 

Le conseguenze di questa disattenzione?

Quello che politici, storici e politologi chiamano “non governo”. Lo storico Piero Craveri ha intitolato “L’arte del non governo” il libro nel quale recentemente ha lamentato l’“inesorabile declino della Repubblica italiana” (Marsilio, 2016). Questo libro echeggia altri tre libri con lo stesso titolo apparsi sul finire degli anni Settanta dello scorso secolo, uno dei quali l’“Intervista sul non governo” di Ugo La Malfa. Le ricordo che Craveri inizia con una citazione di Vanoni sulla possibilità di “cadere in condizioni quasi coloniali” e attribuisce le cause del “non governo” all’ideologismo dei partiti (e questo non c’è più), all’arretratezza dei governi, incapaci di guidare un paese industriale, al malinteso primato della politica sull’economia e alla mancata evoluzione della democrazia.

 

Cade anche lei nella “deprecatio temporis” consueta per gli intellettuali italiani, e da lei più volte criticata?

No, osservo che c’è un “dislivello di statalità”, dovuto anche all’assenza di quella che i francesi chiamano “noblesse d’État”. In fondo, le forze politiche si candidano a gestire lo Stato. E danno prova di non essere ancora in grado di saperlo fare, a giudicare dalle proposte elettorali.

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