Isabella Rauti e Gianni Alemanno (LaPresse)

La destra e la "riaccensione" della fiamma secondo Isabella Rauti

Marianna Rizzini

La fase due di Fratelli D’Italia spiegata con lo sguardo rivolto alla “permanenza dell’idea” che va dal Msi all’oggi

Roma. “È tornata Isabella Rauti”, si è detto all’indomani del secondo congresso di Fratelli d’Italia, vedendola comparire nelle foto accanto a Giorgia Meloni e a Daniela Santanchè. Non è proprio così. Isabella Rauti, che in FdI milita non dalla fondazione ma dal 2013, negli ultimi due anni non c’era fisicamente, ma c’era. Anzi: si stava preparando sul campo alla cosiddetta fase due, quella che Meloni, a Trieste, ha descritto come trasformazione in “partito dei patrioti”. Dove fosse Rauti lo racconta lei: a un certo punto, “ma tardivamente”, ha scoperto che ci si può candidare e poi arruolare nell’Esercito italiano come “riserva selezionata”: professionisti che vanno per un periodo sul campo (Rauti, per esempio, in due basi Nato) a fare il proprio lavoro (nel suo caso: giornalista, gender advisor e analista politico), ma, dice, “dove si può dare risposta concreta a bisogni concreti”.

     

Ed è accaduto, a un certo punto, che Rauti, nipote di un colonnello di aviazione e figlia di un padre (Pino Rauti), sottufficiale nella Repubblica Sociale, vedesse quell’esperienza internazionale e “patriottica”, come un ponte verso il futuro di Fratelli d’Italia, appena delineato al congresso: “FdI è nata”, dice, “con l’intento di mettere in sicurezza i valori della destra italiana, portando in Parlamento il simbolo della fiamma dell’Msi e radicando il partito sul territorio. Obiettivi raggiunti: ora FdI è il quinto partito italiano, conosciuto e strutturato da nord a sud. Nella fase due, quella che si apre adesso, ci candidiamo a essere forza di governo”. E’ cambiato anche il simbolo (tolto ogni riferimento ad An, resta la fiamma che fu del Msi), ed è un cambiamento che a Rauti piace molto: “Non aveva senso tenere nel simbolo An, sigla che rimanda a un’esperienza datata che, a mio avviso, ha fatto più danni che altro. E sono contenta di vedere nel simbolo la fiamma, che invece rimanda ad un’idea precisa e a una positiva percezione della destra”.

     

C’è di mezzo anche la storia personale: il 1995, la “svolta” di Fiuggi che Isabella Rauti non vuole oggi neanche chiamare “svolta”, Gianfranco Fini che fonda An e lei che sceglie la Fiamma Tricolore fondata da suo padre, anche se, allora come oggi, quando qualcuno dice “Isabella Rauti ha seguito il padre”, lei risponde che aveva 32 anni, stava per diventare madre, e “da militante anzi quasi da soldato” non aveva certo bisogno di un uomo che pensasse al posto suo (in An ci andrà nove anni dopo, ma quando qualcuno allude al percorso del marito ed ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, Rauti dice che anche in quel caso il riferimento è frutto di “provincialismo” italiano: “Non per niente Fratelli d’Italia è l’unico partito con un capo donna, cosa che in altri paesi neanche fa notizia, ma se questo simbolicamente può servire a svecchiare la caterva di pregiudizi sulle donne e la destra ben venga”).

   

 

Eppure non è più soltanto storia personale, quella che gira attorno alla nuova accensione della fiamma, dice Rauti: “A parte il fatto positivo di aver portato la destra al governo, An ha prodotto un annacquamento di identità – e l’appiattimento in un indistinto partito d’opinione che si è fatto prima fagocitare da Forza Italia e poi ha dato vita a un innesto da laboratorio, il Pdl. E allora per me la fiamma che resta nel simbolo è un fatto politico, sì, ma anche una questione di cuore: sono entrata nel Msi non ancora quattordicenne. Mi ero iscritta a una famosa sezione nel quartiere Prati. Mia madre ha conosciuto mio padre quando lei era rappresentante d’istituto e militante della destra e lui giovane leader missino. Con mio padre spesso ho discusso, ma non sono mai stata tentata dal cambio di campo. Ho iniziato presto, con mia sorella maggiore iscritta alla sezione Medaglie d’Oro: fingevamo di andare a nuoto invece andavamo lì. Io facevo le pulizie e arrotolavo manifesti. Mia sorella si è stancata presto, io no. La fiamma per me è un richiamo a tutto un sistema di valori e a una visione della vita e del mondo, è permanenza di un’idea nel solco della modernità. Non c’è frattura, la fiamma riaccende un sistema di valori da applicare all’oggi”.

   

Il partito dei patrioti, infatti, dice Rauti, “non vuole essere testimonianza storica, vuole lanciare una sfida: trasformarsi in una formazione politica che sappia rispondere alle emergenze del presente”. E però, nel quadro della destra a tre teste di oggi (polo liberale con Silvio Berlusconi, polo sovranista di Matteo Salvini e fronte identitario di Fratelli d’Italia), bisogna trovare dei punti di contatto con gli altri. “Stiamo tutti lavorando per costruire una coalizione, vista anche la legge elettorale. Io mi auguro ci si riesca, perché il centrodestra unito può vincere. Lo davano per morto, non è così. Ma soltanto unito può tornare a governare il paese. E però, come ha detto Giorgia Meloni a Trieste, non a ogni costo ci si può coalizzare, ma la coalizione va fatta a ogni costo sul programma, su pochi punti: il lavoro, la sicurezza nazionale e internazionale, le politiche per la famiglia, al gestione dell’immigrazione.

 

La priorità resta: prima l’Italia e gli italiani, no a governi di inciucio”. Da gestire, intanto, ci sono i rapporti con la Lega: “In tempi meno sospetti, nel febbraio 2015, al cinema Adriano di Roma, ho detto che il dialogo con la Lega era indispensabile e che la Lega era, a livello di vocazione, un nostro alleato naturale. Lo ripete, senza complessi di inferiorità. A me personalmente piacerebbe superarla a destra, la Lega, a patto che si possano condurre battaglie fondamentali: no allo ius soli, no all’immigrazione selvaggia, no all’Europa a trazione tedesca. C’è un terreno comune, anche se siamo diversi. Per noi ci sono valori non negoziabili come l’unità nazionale. E per definirsi di destra non basta dire cose di destra. Bisogna dire e fare cose di destra avendo una storia di destra”.

 

Una parola, identità, oggi ricorrente, nei dibattiti sulla cosiddetta “onda nera”: “Un italiano su due ha paura dei fascisti, ho letto in un sondaggio su Repubblica”, dice Rauti. “Beh io non ho paura. Mi fanno più paura i quattro milioni e mezzo di poveri e nuovi poveri. E credo che questo clima sia pericoloso, da opposti estremismi anni Settanta. Si sta orchestrando una caccia alle streghe sostenendo che una serie di episodi diversi – taluni di esecrabile prepotenza, ma non di violenza – vadano a costruire un sistema anche detto ‘onda nera’. Ma se si continua ad evocare il demonio, il demonio arriva. Gli antifascisti permanenti hanno difficoltà a confrontarsi con argomenti nuovi, hanno l’ossessione del fascismo. E penso siano irresponsabili nell’evocazione di questa specie di referendum – state con i nuovi presunti mostri o no? Il paese ha bisogno d’altro. Certo: esistono, e non da oggi, gruppi di estremisti più o meno ai margini della vita politica. Ma non rappresentano una minaccia per il sistema democratico. Oggi la sinistra sta strumentalizzando una caccia alle streghe per aggregare consenso”.

Di più su questi argomenti:
  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.