Matteo Renzi ospite di Quinta Colonna (foto LaPresse)

Così il Pd si prepara allo scenario post atomico di una disfatta elettorale

Redazione

Se la vendetta dalemiana dovesse compiersi, potrebbe non essere solo una resa dei conti personale ma avere anche serie conseguenze sulla cultura politica e sugli assetti futuri

Molta gente al Tempio di Adriano quando Francesco Rutelli ripropone la sua creatura europea, il Partito democratico fondato nel 2004 con l’allora promettente François Bayrou, e offre il proscenio agli europeisti del centrosinistra e soprattutto a colui che definisce “il punto d’equilibrio” della coalizione, cioè Paolo Gentiloni. Molta gente anche alle presentazioni del libro di Walter Veltroni, in particolare quella all’Auditorium di Roma che vede come ospite d’onore sul palco di nuovo Paolo Gentiloni. Più raccolta, ma di qualità, la platea della presentazione del libro di don Antonio Spadaro sulla Cina, discusso da Romano Prodi e, guarda un po’, Paolo Gentiloni. Basterebbe molto meno ai giornali per innamorarsi dell’idea del “partito di Gentiloni”, lo schieramento ampiamente maggioritario nell’establishment nazionale che punta sull’attuale presidente del Consiglio nella prevedibile stagione di caos che si spalancherà dopo le elezioni di marzo.

    

In realtà, dato per acclarato che non essendoci mai stata neanche una “corrente di Gentiloni” è difficile immaginarsi che lui si intesti addirittura un partito (o anche solo una lista civetta, come si vocifera nel palazzo in questi giorni: non succederà), quella che si va stendendo è più che altro una rete di protezione per il Pd nello scenario post-atomico di una dura sconfitta elettorale che metta i democratici in una scomoda posizione da socialdemocratici tedeschi, ovvero di dover garantire un governo al paese appoggiando un governo non guidato da loro.

 

Se a questo si dovesse arrivare, essendo chiaramente tagliato fuori (per molto o per sempre) Matteo Renzi, solamente il club dei fondatori potrebbe appellarsi al popolo dem per convincerlo a sopportare un passo tanto ostico. E’ uno scenario contemporaneamente assai realistico ma anche del tutto impensabile, nel senso che è impossibile (e forse anche ingiusto) ragionare oggi sull’assetto d’emergenza che potrebbe darsi il centrosinistra all’indomani di una sconfitta che si può ancora evitare o quanto meno contenere. Però attenzione, perché ci sono anche ragioni meno contingenti che giustificano la chiamata alle armi dei riservisti (con Piero Fassino già molto attivo e benemerito, gli ex popolari che all’ombra del Quirinale riprendono fili fra loro mai spezzati, i prodiani bolognesi e milanesi decisi a non arrendersi al fallimento di Pisapia). Queste ragioni alla fine hanno un nome e un cognome, sempre il solito: Massimo D’Alema.

 

Per tutti coloro che fecero dell’evoluzione liberaldemocratica della sinistra una ragione di vita, il fantasma che si agita non è tanto la fine dell’avventura di Renzi e dei renziani, quanto la possibilità non così remota che Renzi trascini con sé nella caduta tutta l’impalcatura ideale (per sintetizzare potremmo dire: il Lingotto) che consentiva al Pd di presentarsi come lo strumento della fuoriuscita e dell’emancipazione della sinistra italiana dal Novecento.

 

Del resto è già successo con il maggioritario: subito dopo aver trovato un leader che lo incarnava nel maniera più estrema e coerente, è stato cancellato proprio come conseguenza di questa immedesimazione, e della punizione che gli italiani hanno voluto infliggere non tanto alle idee del povero professor Parisi ma a colui che le aveva trasformate in battaglia campale.

  

Ora, dopo il maggioritario, lo spettro della restaurazione assume i caratteri del collateralismo di ritorno con la Cgil; dell’attacco alle riforme del lavoro, della scuola, della pubblica amministrazione, sempre in un’ottica para-sindacale; della ricomparsa dei simboli (la selva di bandiere rosse che sconvolsero Pisapia alla manifestazione di piazza Apostoli). Se la vendetta dalemiana dovesse compiersi, potrebbe non essere solo una resa dei conti personale ma avere anche serie conseguenze sulla cultura politica e sugli assetti post-elettorali. La parabola Blair-Brown-Miliband-Corbyn dimostra alla perfezione che i tempi possono consentire e perfino premiare le operazioni nostalgia, laddove ci si era spinti più avanti nell’innovazione.

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