I sei anni che hanno cambiato l'Italia (e forse per sempre)

Claudio Cerasa

Dal 2011 il nostro paese è governato da una grande coalizione ed è probabile che la formula sarà replicata. Perché le strane maggioranze hanno risvegliato l’Italia costringendo i partiti a fare i conti con un tabù mai affrontato: il principio di realtà

Nelle gare automobilistiche, quando l’agibilità di una pista viene messa a rischio dalla presenza di un grave incidente, i responsabili del circuito fanno uscire dai box una vettura convenzionale che ha il compito di rallentare la gara e di raggruppare le monoposto una dietro l’altra per alcuni giri, nell’attesa che sia possibile ripartire garantendo l’incolumità dei piloti e delle loro macchine. La vettura, come molti sanno, si chiama “safety car” e quando la safety car entra in pista, di solito, i piloti hanno il tempo di riprendere fiato e coordinarsi con le proprie scuderie per capire cosa funziona e cosa non funziona nella propria macchina.

   

L’immagine della safety car è forse la migliore per provare a fotografare, e spiegare, la condizione politica, economica e istituzionale in cui si trova l’Italia da poco più di duemila giorni, da quel 16 novembre del 2011 in cui giurò il governo guidato da Mario Monti. Dal novembre di sei anni fa a oggi molte cose sono cambiate, molti governi si sono alternati, molti ministri sono passati, molti leader si sono afflosciati, molti partiti sono nati, morti e risorti, ma in questo spazio temporale una costante importante c’è stata: la presenza ininterrotta di un governo di grande coalizione.

  

Di fronte agli occhi degli italiani, la grande coalizione si è presentata in forme diverse, prima con il governo Monti nato dal collasso del governo Berlusconi, poi con il governo Letta, poi con il governo Renzi, quindi il governo Gentiloni, e ogni esecutivo ha avuto una storia a sé. La prima fiducia del governo guidato da Mario Monti ottenne 556 voti alla Camera, la prima fiducia del governo guidato da Enrico Letta 453 voti, la prima fiducia del governo guidato da Matteo Renzi 378 voti, la prima fiducia del governo Gentiloni 368 voti. Al di là delle dinamiche parlamentari, il dato sul quale riflettere riguarda un tema cruciale che merita di essere messo a fuoco per molte ragioni e per una in particolare: la condizione politica vissuta dall’Italia negli ultimi sei anni è probabile che verrà replicata anche nella prossima legislatura, e allora tanto vale cominciare a chiedersi come e in che cosa la grande coalizione ha cambiato l’Italia.

  

A sei anni dal governo Monti, non c’è dubbio che la formula della grande coalizione (che ieri arrivava fino a Forza Italia e oggi arriva fino al Nuovo centrodestra, anche se la complicità di Forza Italia con l’attuale governo è evidente e forte) abbia radicalmente cambiato il nostro paese. Ma se c’è un punto che merita di essere messo sotto esame più degli altri è in che modo i duemila giorni e così trascorsi abbiano rivoluzionato le coordinate del nostro paese. Gli elementi di riflessione sono infiniti, e dalla prossima settimana il Foglio ospiterà molti interventi per provare a mettere a fuoco il tema (chi vuole può scriverci qui: [email protected]), ma l’analisi giusta da cui partire non può che contenere due elementi cruciali: il lato politico e il lato economico.

 

Il primo punto riguarda la fine oggettiva dell’antiberlusconismo (fenomeno in buona parte sostituito dall’antirenzismo) e la progressiva trasformazione di Berlusconi, anche agli occhi di molti nemici storici, in una risorsa della democrazia e non più in un “pericolo per la democrazia” (sei anni fa una lista unica tra un Berlusconi e un Salvini sarebbe stata ovvia, senza discussioni, oggi la safety car della grande coalizione ha avvicinato i percorsi dei partiti di governo rendendo quasi incompatibile la coesistenza tra chi urla e tra chi ragiona, motivo per cui difficilmente Berlusconi accetterà mai di fare una lista unica con Salvini).

 

Il secondo punto riguarda la crescita del Movimento cinque stelle, che nel giro di sei anni è passato dal rappresentare una quota vicina al 5 per cento degli elettori a una quota che secondo i sondaggi oscilla tra il 25 e il 29 per cento (le ragioni meritano di essere trattate a parte ma in tutto questo non può non aver pesato anche l’incapacità di un pezzo importante di classe politica e di classe dirigente di osservare senza pregiudizi i risultati ottenuti dalla grande coalizione, e anche la tentazione coltivata da molti di affrontare i populisti non sfidandoli ma rincorrendoli). Il terzo punto, che politicamente forse è il punto cruciale, riguarda l’identità dell’unico partito che governa ininterrottamente l’Italia dal 2011 a oggi, e quel partito è ovviamente il Pd. Rispetto al 2011 la sinistra italiana ha subìto una trasformazione antropologica, amplificata dalla doppia vittoria di Renzi alle primarie del Pd.

 

L’attuale segretario democratico ha avuto dei meriti oggettivi nell’aver rivoltato come un calzino la sinistra italiana, ma il percorso verso il quale l’ex sindaco di Firenze ha spinto il più grande partito progressista europeo è figlio di una svolta più grande a cui il nostro paese è stato costretto a causa dei molti incidenti comparsi sulla pista della politica italiana: la necessità di trasformare la trasversalità in un valore e non più in un difetto della democrazia. Cominciare a descrivere l’accordo con gli avversari non più come il sintomo di una democrazia malata, affetta dall’orrido morbo del consociativismo, ma come la spia di una maturazione del sistema politico. Per molti non è stato facile ma la grande rivoluzione di questi sei anni è stata prima di tutto questa: l’aver messo gran parte dei partiti nella condizione di osservare con meno ideologie rispetto al passato la natura dei problemi dell’Italia. Una condizione del tutto particolare che ha permesso di affrontare alcuni temi che per molti anni non erano stati presi di petto: la riforma delle pensioni, la riforma del lavoro, l’abolizione dell’articolo 18, la riforma delle banche popolari, l’alleggerimento della pressione fiscale alle imprese, l’attenzione ai conti pubblici (lato deficit), la fine della concertazione come unico regime da adottare nel rapporto con i sindacati. 

  

  

Con ogni probabilità, la presenza della safety car della grande coalizione avrebbe potuto costringere i maggiori partiti italiani a fare più di quello che hanno fatto, e non si può non notare che dopo duemila giorni e passa di coalizioni trasversali il debito pubblico continua a essere quello che è, che la produttività del nostro paese continua a essere una delle più basse tra i grandi paesi d’Europa, che la riforma della giustizia penale è stata ancora una volta rimandata nel tempo, che la lotta allo stato inefficiente è stata deludente, che le grandi liberalizzazioni sono state evitate per non perdere consenso politico. Ma nonostante questo, i sei anni di grande coalizione hanno oggettivamente aiutato l’Italia a superare la crisi economica e rispetto al 2011 tutti i principali indicatori che misurano lo stato di salute del nostro paese sono in costante rialzo. Lo spread tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi è passato da quota 560 a quota 160 (secondo diversi analisti, l’intervento della Banca centrale europea di questi anni, attraverso il Qe, pesa circa 100 punti di spread) e osservando alcuni numeri pubblicati il 7 agosto dal Dipartimento di economia e statistica della Banca d’Italia è evidente il miglioramento delle condizioni economiche del nostro paese rispetto al 2011.

 

In questo periodo, sono aumentate in modo significativo le esportazioni, i consumi delle famiglie, gli investimenti fissi lordi, il clima di fiducia delle imprese, il clima di fiducia dei consumatori, il valore delle esportazioni di beni dell’Italia, il tasso di occupati. E ovviamente, contestualmente a tutto questo, è aumentato anche il pil. Nel 2011 era +0,6 per cento. Nel 2012, –2,8. Nel 2013, -1,7. Nel 2014, +0,1. Nel 2015, +0,8. Nel 2016, +0,9. Nel 2017 è stimato essere +1,5. Nello stesso periodo in Europa la serie storica è stata questa: +1,5; -0,9; -0,3 +1,2; +2; +1,7. In Germania: +3,7; +0,7; +0,6; +1,6; +1,5; +1,8. Come è evidente, l’Italia non ha fatto tutto quello che sarebbe stato necessario fare per correre a una velocità superiore a quella della media europea ma senza lo straordinario attivismo riformista mostrato dalla grande coalizione non sarebbe stato possibile passare nel giro di sei anni da una situazione di grave crisi politica, economica e istituzionale a un contesto di sostanziale normalità e di buona salute (da leggere gli elogi riservati all’Italia questa settimana sia dal Financial Times sia dall’Economist).

 

Gli analisti più severi noteranno che rispetto all’agosto del 2011, quando arrivò all’Italia la famosa lettera della Bce, solo metà dei punti segnalati da Mario Draghi e Jean-Claude Trichet
 come urgenti “per ristabilire la fiducia degli investitori” sono stati attuati. Ma a rileggere quella lettera oggi, sembra un miracolo che un paese come l’Italia sia riuscito a fare nel giro di sei anni quello che non era riuscito a fare negli ultimi trenta. “Lavorare per riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva”. “Permettere accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende”. “Adottare una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti”. “Introdurre una clausola di riduzione automatica del deficit che specifichi che qualunque scostamento dagli obiettivi di deficit sarà compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle spese discrezionali”. “Rendere più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico”.

 

Di quella lettera, effettivamente, di cui abbiamo riportato alcuni passaggi qui tra virgolette, molti punti restano da attuare. Se mai, dalla prossima legislatura, la safety car istituzionale dovesse essere ancora in pista, sarà utile ripartire da lì (e sarebbe utile che al centro della prossima campagna elettorale ci siano più questi punti che le stupidaggini sui vitalizi). Sperando che non sia necessario arrivare alla soluzione proposta il 4 settembre in un report per i clienti di Citibank sul futuro dell’Italia: augurarsi che nessun partito abbia la forza di far nascere un governo politico per far sì che la lettera della Bce sia attuata direttamente dall’unica persona che forse avrebbe la forza di attuarla nella sua integrità: Mario Draghi.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.