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Il potere che manca all'Italia

Claudio Cerasa

Un paese che fa sistema solo contro qualcuno e mai a favore di qualcosa conterà sempre meno nel mondo. Una grande inchiesta sul soft power fotografa il dramma della nostra élite e spiega perché l’Italia può perdere una partita cruciale: l’Ema

E’ davvero un peccato che nel corso della giornata di ieri i riflettori dei principali giornalisti italiani siano rimasti puntati così a lungo sulla storia del ministro Enrico Costa. Le dimissioni di un ministro, si sa, sono sempre una notizia che vale quantomeno l’apertura di un giornale, ma nelle ultime ventiquattro ore ci sarebbe stata un’altra notizia non meno importante che avrebbe quantomeno meritato una pari attenzione. La notizia è stata riportata ieri con grande enfasi dai giornali francesi, dal Figaro in particolare, e si lega a uno studio molto ben fatto da una famosa società di consulenza basata a Londra, Portland, in collaborazione con l’University of Southern California Center on Public Diplomacy. Lo studio misura ogni anno un indice solo apparentemente fumoso che coincide con la famosa idea del soft power.

 

Il soft power è un termine che è stato coniato all’inizio degli anni Novanta da un professore della H arvard Kennedy School of Government, Joseph Nye, ed è un concetto che a grandi linee aiuta a misurare due cose: la capacità di influenza e di persuasione di uno stato e delle sue élite politiche, economiche e culturali sulla scena internazionale, escludendo qualsiasi riferimento alla potenza militare, e l’abilità conseguente di ciascuno stato a contare sempre di più nel contesto economico globale attraverso un meccanismo di interdipendenze utili a rafforzare il proprio potere nel mondo. “A livello personale – sostiene Joseph Nye – conosciamo tutti il potere del fascino e della seduzione. In una relazione sentimentale, il potere non risiede necessariamente nel partner più forte, ma nella misteriosa chimica dell’attrazione. Il soft power non è una forma di idealismo o di liberalismo. E’ semplicemente una forma di potere, un modo di ottenere gli scopi desiderati”.

 

La ragione per cui i politici italiani non hanno rilanciato con la stessa enfasi dei politici francesi i risultati della ricerca di Portland è che la classifica sul soft power mondiale ci dice alcune cose che quotidianamente l’Italia fatica ad ammettere a se stessa: l’incapacità di fare sistema sulle grandi partite che contano davvero nel nostro paese. La classifica relativa al potere discreto giocato dalle trenta principali nazioni del mondo, aggiornata al 2017, ci dice tre cose che vale la pena mettere insieme. Ci dice, primo punto, che su questo terreno la Francia è diventata il paese più potente del mondo, superando persino gli Stati Uniti d’America e guadagnando quattro posizioni rispetto al 2016 (dietro la Francia ci sono Uk, Stati Uniti d’America, Germania e Canada). Ci dice, secondo punto, che negli ultimi mesi, come capacità di incidere sul resto del mondo, il potere dell’Europa si è notevolmente rafforzato, nonostante l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea.

 

Ma ci dice, per arrivare all’Italia, che dal 2016 al 2017 il nostro paese, dopo aver recuperato una posizione tra il 2015 e il 2016, ne ha perse improvvisamente due e oggi si trova al tredicesimo posto dietro a Norvegia, Danimarca, Olanda, Svezia, Australia, Svizzera, Giappone e tutti gli altri. Misurare il soft power di un paese non è semplice e anche i criteri scelti da Portland possono essere criticabili (in un’altra classifica per esempio l’Italia occupa una posizione più alta). Ma per quanto possa essere ambiguo, il concetto di soft power è un principio che contiene un elemento di fronte al quale le famose élite politiche, economiche e culturali di uno stato dovrebbero fermarsi un attimo a riflettere. La questione è semplice: è solo un caso che un paese come il nostro, che riesce a fare sistema solo contro qualcosa o solo contro qualcuno, mostri con costanza di non essere capace a fare sistema a favore di qualcosa? Chiunque tenterà di rispondere a questa domanda si ritroverà di fronte a molte questioni importanti, cruciali, sui quali l’élite del nostro paese ha mostrato in troppe occasioni di non essere sufficientemente attrezzate: il senso generale e profondo dell’interesse nazionale, la capacità di sostenere in modo trasversale battaglie di buon senso, l’attitudine di ciascuno di noi a capire quando una battaglia riguarda l’identità di un partito e quando invece una battaglia riguarda l’identità di un paese, la predisposizione dei grandi mezzi di comunicazione di massa a resistere alla tentazione di alimentare il mercato del malumore – che più è grande e più porta ovviamente gli stessi mezzi di comunicazione a delegittimare con costanza chi si trova a governare. Da questo punto di vista la lettura dell’indice relativo al soft power mondiale ci è utile anche per capire quali possono essere gli indicatori da tenere sotto controllo per misurare la forza di un paese. L’indice sul soft power combina sia dati soggettivi sia dati oggettivi e questi ultimi sono quelli sui quali vale la pena concentrarsi: educazione, cultura, digitalizzazione, forza di un governo, abilità ad attrarre talenti e imprese e capacità diplomatiche di un paese. Per ottenere una buona valutazione nell’ambito di questi parametri – dove l’Italia è nella top ten solo per quanto riguarda le capacità diplomatiche (posizione numero sette) e la cultura (posizione numero sei) – lo studio indica quali sono le realtà di un paese che possono aiutare la politica a contare di più nel mondo. Ci sono le università, naturalmente. Ci sono gli gli imprenditori, ovviamente, con la loro capacità di essere personalmente ambasciatori delle cause di un paese. Ci sono i giornali, anche se lo studio segnala che la capacità dei mass media di incidere sui processi decisionali di un paese è in costante diminuzione. Ma, dato significato, ci sono soprattutto i veri e naturali ambasciatori degli interessi di una nazione, che avrebbero il dovere di giocare nel mondo un ruolo di influenza non inferiore a quello degli ambasciatori ufficiali: i sindaci delle grandi città. La classifica di Portland potrà essere contestabile quanto si vuole, ma nei prossimi mesi ci sarà un’occasione importante in cui il nostro paese avrà la possibilità di dimostrare la sua capacità di esercitare in modo discreto ma efficace il suo potere dolce se esiste oppure no. La partita è legata a una sigla che l’opinione pubblica italiana conosce meno del cognome del ministro che si è dimesso ieri dal governo Gentiloni ma che in prospettiva vale decisamente più di una poltroncina di un governo semi-balneare. La sigla è composta di tre lettere: Ema, European Medicines Agency. Entro aprile 2019, per effetto della Brexit, l’Agenzia europea del farmaco (Ema) dovrà lasciare Londra. E Milano, che per la ricerca farmacologica è un centro d’eccellenza riconosciuto in tutto il mondo, è una delle città candidate a ospitare l’agenzia. L’Ema è un bestione con un budget di circa 300 milioni di euro all’anno e un fatturato stimato oltre il miliardo, e tra i suoi corridoi ogni anno circolano circa 36 mila persone. E si capisce bene, come ha ricordato più volte Maurizio Crippa nelle nostre pagine milanesi del giovedì, quanto possa essere cruciale che l’arrivo in una città dell’agenzia europea del farmaco. Sia per l’indotto di chi arriva a lavorare in agenzia (case, alberghi, scuole per i figli) sia per la possibilità che i protagonisti mondiali di Big Pharma decidano di spostare nei pressi dell’Agenzia parte dei propri quartier generali.

Entro novembre, l’Europa, attraverso il presidente del Consiglio europeo e il presidente della Commissione europea, deciderà a quale città affidare l’Ema. I criteri messi a punto dai due presidenti europei per scegliere la città giusta sono sei e sono questi: la rapidità con la quale la nuova sede può essere operativa; la sua accessibilità; la presenza di scuole per i figli dei dipendenti; l’accesso al mercato del lavoro e ai servizi medici e sociali per i figli e i partner; l’assicurazione che possa essere garantita la continuità dell’attività; e per ultimo il fattore geografico. Accanto ai criteri oggettivi ci saranno però anche criteri politici e quando il Consiglio degli Affari generali (dove siedono i ministri degli Affari europei) dovrà trovarsi a decidere in quale delle 22 città in campo dovrà trasferirsi l’Ema il soft power di un paese (e anche la capacità di un sindaco di una grande città di essere un ambasciatore vero degli interessi di un paese) conterà, forse più di ogni altra cosa. Milano è probabilmente la città più adatta per accogliere l’Ema ma il governo italiano sembra essere a un passo dal rinunciare a un’occasione unica come l’agenzia del farmaco (la candidata alternativa è la coppia Vienna-Bratislava) per avere altre concessioni europee: dalla flessibilità nella legge di Bilancio, al sostegno sull’operazione delle banche europee, fino al fronte libico. A Roma, le Olimpiadi sono state scartate per l’incapacità di un sindaco a scommettere sul futuro della sua città. Doversi trovare tra qualche mese di fronte a una situazione del genere anche per Milano sarebbe la dimostrazione che “la misteriosa chimica dell’attrazione” è così delicatamente soft che quasi non si vede.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.