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Il delizioso hard power di Macron

Giuliano Ferrara

Il presidente ha licenziato un quadro amato dell’esercito, il capo di stato maggiore, e la storia ci dice molto sulla sua traiettoria. Modernizzatore, sì, ma restauratore di un antico primato della politica su tutto, esercito, economia, società. Da seguire

Dopo la burinaggine goffa di Sarkozy e l’insipienza colloquiale e infelice di Hollande, Macron aveva promesso una presidenza “jupitérienne”, gioviale, nel senso di distante, decidente e solida prima di tutto nel campo ad essa riservato, che è quello della sicurezza, della difesa, della politica estera. Ha licenziato su due piedi un quadro amato dell’esercito, appena prorogato di un anno nella sua funzione di capo di stato maggiore, Pierre De Villiers, perché aveva lasciato trapelare una sua frase in Parlamento, non mi farò fregare, “baiser”, dai tagli alla difesa. “Quando il presidente e il capo di stato maggiore non sono d’accordo, cambia il capo di stato maggiore”, ha sentenziato il giovane Zeus, e il capo dell’esercito, 61 anni, è andato istantaneamente in pensione, nonostante la sua buona reputazione e la presumibile popolarità del suo appello a non indebolire l’infrastruttura delle armées, impegnate in molti scenari di guerra nel mondo e in patria contro il terrorismo.

 

Quarto di cinque fratelli, tra cui il confusionario visconte de Villiers (Philippe), capo della Vandea in senso territoriale e politico, avventuroso sovranista, il generale dimissionato era lontano dall’impegno politico diretto, ma di tendenza fillonista ed evidentemente troppo ciarliero.

 

Dal 1958, anno dell’ascesa al potere di Charles de Gaulle, non accadeva qualcosa di simile.

Per quanto la grana sia grossa, e il problema del finanziamento della difesa massiccio, la circostanza non deve essere dispiaciuta al presidente. La subordinazione gerarchica, né consigli né commenti, è un pilastro dell’amministrazione dello stato in Francia. In particolare quando si tratti di rapporti tra autorità civili supreme, con delega totale al comando della forza armata, e militari. Macron ha stretto la mano di Trump con la stessa energia con cui gli ha sorriso il 14 luglio scorso, e manovra sullo scenario europeo con disinvoltura e prudenza, ma senza risparmiarsi atti e posture decisioniste nella ottima relazione speciale con la Germania di Angela Merkel. La stretta di mano, per un addio, al generale incontinente e verbalmente insoumis, con tutti i problemi che questo può comportare, non poteva essere floscia. Ovvio. Anche perché di posture senza esercizio vero dell’autorità i francesi sono stanchi, e questo è il segreto della popolarità del nuovo presidente e della sua affermazione elettorale. Così per lo stato d’emergenza: doveva finire prima o poi, era una promessa elettorale, cioè un impegno razionale, ma non poteva finire se non con una legge in via di approvazione all’Assemblée nationale, già ratificata dal Senato, che incorpora nelle facoltà di indagine e di repressione del fenomeno terroristico alcuni elementi dello stato d’emergenza, rendendoli permanenti, il che è garantisticamente pericoloso ma tutto sommato accettabile, o semplicemente accettato, data la situazione.

 

Almeno secondo la maggioranza dell’opinione pubblica dopo Parigi, Nizza e molte altre occorrenze sventurate, sinistre. Partendo da una base debole, anche elettoralmente, e da una forte inesperienza, un solo anno dalla costituzione del suo movimento, Macron ha scavalcato l’onda lepenista e il rigurgito di sinistra interpretato dal retore Mélenchon grazie alla forza delle istituzioni della V Repubblica, e al ballottaggio. Ha eliminato gaullisti e socialisti, ma solo per riprendersi il succo della loro esperienza storica, sembrerebbe. Dovrà vedersela con i sindacati più duri d’Europa, e con una gauche dispersa ma rifocillata dalla convergenza con la destra più o meno sociale e antieuropea, e il suo programma liberalizzatore e globalizzatore è di quelli da far tremare le vene dei polsi, sebbene gestito fino ad ora con grande attenzione alla particolarità o al particolarismo del modo di vita francese, che non prevede rivoluzioni di tipo anglosassone nel mercato. Quando apparve solitario nella passeggiata della vittoria per salire su sfondo Piramide al Louvre sulle note dell’Inno alla Gioia di Schiller e Beethoven, per finire con la Marsigliese, dopo aver evocato “mesi e mesi” di grandi lotte e sacrifici, laddove i predecessori si vantavano di decenni e secoli di esperienza della destra e della sinistra più antiche del mondo, del giovane presidente si capì che avrebbe governato prima ancora del paese la propria immagine. Modernizzatore, ma restauratore di un antico primato della politica su tutto, esercito, economia, società. Ci sta provando, e il licenziamento in tronco del generale De Villiers è stato il primo vero esperimento di fatto. Altri seguiranno.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.