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Contro il partito dei banalizzatori

Claudio Cerasa

Dalla Francia, all’Italia: responsabilità delle élite nella proliferazione del qualunquismo populista

Su Repubblica di ieri, l’ex direttore Ezio Mauro si è chiesto, smarrito, come sia possibile che in Francia esista una sinistra incapace di prendere una decisione chiara rispetto a una scelta sulla quale, in teoria, non dovrebbe esserci alcun tentennamento e alcuna titubanza. La scelta, naturalmente, riguarda il ballottaggio di domenica prossima, tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen, e Mauro denuncia il fatto che, in Francia, esistono molti intellettuali, blogger, filosofi, storici, sindacalisti che “hanno già fornito la giustificazione teorica a questo tradimento repubblicano che ha come posta in gioco visibile il palazzo dell’Eliseo ma in realtà arriva a intaccare le fondamenta dello spirito democratico francese”.

 

L’ex direttore di Repubblica coglie un punto importante ma non va fino in fondo al suo ragionamento, evitando così di spiegare le ragioni culturali della banalizzazione del populismo. Mauro non lo fa anche perché quel ragionamento, duro, lo avrebbe costretto a mettere a fuoco un tema con il quale oggi molti intellettuali della sinistra (e non solo di quella francese) devono fare necessariamente i conti, quando si parla di populismo. Forse potremmo metterla così: ma siamo proprio sicuri che “il tradimento repubblicano” sia figlio di un semplice errore di valutazione di una parte dell’elettorato in teoria illuminato e non sia invece la conseguenza naturale di ciò che un pezzo importante della sinistra ha seminato con coerenza per molti anni? Detto in altre parole: siamo sicuri che, in tutta Europa, gli intellettuali di sinistra che oggi attaccano con editoriali di fuoco i banalizzatori del populismo non abbiano una certa responsabilità nell’aver fertilizzato il terreno dal quale i populisti raccolgono oggi i loro frutti prelibati?

 

In Francia, la convergenza naturale tra un pezzo dell’elettorato di Mélenchon (e speriamo sia solo quello di Mélenchon) e l’elettorato di Le Pen (e speriamo bene con gli elettori di Fillon) è una sorpresa solo fino a un certo punto e non ci si può stupire se esiste una sinistra anti mercatista che si sente rappresentata più da una destra che vuole chiudere le frontiere della modernità (merci, persone) che da una sinistra che non rinnega la globalizzazione e che anzi prova a governarla, a rilanciarla e persino a migliorarla. Da questo punto di vista, dunque, non si può dire sia una sorpresa che in Francia una sinistra illiberale che si è sempre rifiutata di mettere in discussione tabù come le 35 ore (che come sapete corrispondono al nostro articolo 18) si senta più a disagio di fronte a un leader alla Macron che a una leader come la Le Pen. E d’altro canto sorprende fino a un certo punto l’equidistanza tra i due candidati coltivata e professata dalla Conferenza episcopale francese (denunciata ieri anche dal Monde), testimoniata anche dalle parole un po’ scoordinate (a proposito di banalizzazione) offerte qualche giorno fa da Papa Francesco sul ballottaggio francese: “So che uno dei due candidati è un rappresentante della destra forte, ma l’altro, davvero, non so da dove venga e per questo non posso esprimere un’opinione netta”. Tutto questo, per stare alla conferenza episcopale, non sorprende perché se trasformi la lotta alla globalizzazione selvaggia (e al capitalismo barbaro) in una priorità della dottrina sociale della chiesa alla fine le tue idee sono destinate a incrociarsi inevitabilmente anche con ideologie apparentemente distanti dalle tue (la paura del mercato straniero, della globalizzazione, porta inevitabilmente alla legittimazione delle forze politiche che giocano più in generale con la paura dello straniero, ma su questo tema vi rimandiamo al Foglio di lunedì prossimo).

 

In un delizioso libro pubblicato pochi mesi fa in Italia da Mimesi, “Verso l’estremo”, due sociologi francesi di talento, Luc Boltanski e Arnaud Esquerre, hanno spiegato, con anticipo sulle elezioni presidenziali, perché una sinistra che non accetta fino in fondo le logiche di mercato è destinata a spianare la strada ai movimenti populisti.

 

“La sinistra critica – scrivono gli autori – ha cercato di ricompattarsi raffigurando il neoliberalismo come il proprio nemico principale. In questo modo, si è immersa nella configurazione ideologica dell’estrema destra e da quel momento in poi la critica al neoliberismo è diventata una critica alle società moderne e all’interno di quella configurazione ideologica il tutto si è caricato di significati nazionalisti”. Torniamo dunque alla domanda di cui sopra: ma siamo sicuri che il tradimento sia così casuale e non sia invece la conseguenza naturale di ciò che un pezzo importante di sinistra ha seminato con coerenza per molti anni? La risposta è ovvia, no?

 

A voler proiettare la questione appena trattata in Italia, il tema dei banalizzatori del populismo risulta altrettanto preoccupante almeno per due ragioni di carattere più culturale che economico.

 

La prima ragione riguarda proprio l’identità della sinistra (o della vecchia sinistra) e verrebbe da chiedersi (e verrebbe da chiederlo anche a Ezio Mauro) se coloro che per una vita hanno educato un paese (il nostro) a essere indulgente con la cultura del sospetto (e della gogna) possono dirsi completamente non responsabili rispetto alla proliferazione di un movimento politico anti democratico (avete capito di chi stiamo parlando) che ha trasformato la cultura del sospetto (e la gogna) in una formidabile arma di distruzione di massa.

 

La seconda ragione è più generale e riguarda la scelta di un pezzo importante della nostra opinione pubblica, e della nostra classe dirigente, che ha deciso in modo incredibile di non combattere alcuna battaglia per denunciare con costanza il progetto eversivo di un movimento politico (avete capito quale). Questa scelta (a proposito di banalizzazione) non porta solo a sottovalutare la proliferazione (e la legittimazione) di un movimento politico che prova a veicolare attraverso la fuffa della democrazia diretta un nuovo seme di autoritarismo, ma porta anche a sposare in modo pressoché totale l’agenda delle priorità messe in campo dalle forze populiste (vitalizi, anti casta, costi della politica). Il mercato del malumore e della paura non nasce così per caso – tanto in Francia, quanto in Italia – ma nasce perché qualcuno ha scelto deliberatamente di investire, anni fa, su quelle azioni. In Francia molte di queste contraddizioni stanno emergendo alla luce del sole, e speriamo che non sia troppo tardi. In Italia ci sarebbe in teoria ancora tempo per smetterla di inseguire il mercato del malumore e cominciare a educare gli elettori (e i lettori) sulle vere priorità di un paese. Ma tutto questo non accadrà mai se coloro che hanno asfaltato la strada sulla quale viaggia il tir populista non si accorgeranno, per primi, degli errori fatti nel passato.

 

I banalizzatori del populismo, in Italia, proliferano come le fake news (e come le bufale sui vaccini) e domenica prossima una vittoria di Macron sarebbe importante anche per questo: per dare finalmente coraggio ai patrioti dell’europeismo e scuotere quegli intellettuali, blogger, filosofi, storici, sindacalisti che forse involontariamente (forse) stanno preparando il terreno a un tradimento repubblicano che ha come posta in gioco visibile il governo di un paese ma che in realtà arriva a intaccare le fondamenta dello spirito democratico del nostro paese. E forse, prima che sia troppo tardi, conviene svegliarsi anche in Italia.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.