La bolla mortale della nuova democrazia

Damiano Palano

La bolla culturale in cui siamo imprigionati elimina dalla nostra visuale punti di vista alternativi e alimenta la nascita di teorie del complotto e partiti esoterici. Come uscirne? Un saggio

L’ultimo discorso da Presidente di Barack Obama, pronunciato a Chicago il 10 gennaio 2017, è passato quasi inosservato, sommerso dall’attesa per l’imminente avvento alla Casa Bianca di Donald Trump. Vale la pena di riproporre un passaggio: “Per troppi di noi è diventato più sicuro ritirarsi nelle proprie bolle […], circondati da persone che ci assomigliano e che condividono la nostra medesima visione politica e non sfidano mai le nostre posizioni. […] E diventiamo progressivamente tanto sicuri nelle nostre bolle, che finiamo con l’accettare solo quelle informazioni, vere o false che siano, che si adattano alle nostre opinioni, invece di basare le nostre opinioni sulle prove che ci sono là fuori”. Probabilmente nei prossimi anni dovremo tornare a rileggere quelle parole. Non tanto per il talento oratorio di Obama, quanto per l’allarme sui rischi di quelle “bolle” che ci rassicurano ma che ci danno una visione distorta del mondo. Non solo perché proprio in quelle “bolle” le fake news trovano un privilegiato bacino di coltura, ma soprattutto perché la vittoria elettorale di Donald Trump, al di là degli esiti che avrà il suo mandato presidenziale, sancisce per molti versi la fine della democrazia del pubblico e l’atto di nascita di una inedita bubble-democracy. Una democrazia in cui a diventare decisive per l’esito della competizione (e per la sua stessa logica) sono proprio quelle “bolle” in cui ciascuno di noi tende a rinchiudersi.

 

Oltre che per i suoi pregi letterari la fantascienza di Philip Dick è stata celebrata soprattutto per la sua capacità di prefigurare il futuro e di anticipare (in modo talvolta strabiliante) alcune tecnologie contemporanee. Per quanto concerne la raffigurazione delle dinamiche politiche i libri di Dick devono però essere considerati soprattutto come un frutto degli anni Cinquanta e Sessanta, della centralità che la televisione assunse nel corso del Secondo dopoguerra. Prima di altri, Dick comprese infatti che la televisione stava modificando in modo irreversibile le logiche della politica. Perché i leader potevano finalmente fare a meno di giornali, di apparati di partito, di intermediari locali, per rivolgersi direttamente al singolo cittadino, seduto nella poltrona del soggiorno. Per Dick una simile trasformazione annunciava soprattutto le ombre sinistre di una nuova forma di manipolazione, che doveva puntare – più che a una vera e propria propaganda – verso la costruzione di una realtà fittizia. E proprio per questo i leader del futuro – come i presidenti della “Penultima verità” e dei “Simulacri” – sarebbero stati solo fantocci, attori incaricati di recitare un copione scritto altrove, o addirittura androidi. Ma il punto più significativo era che il destinatario della persuasione non era più, come in 1984, una “massa” da sorvegliare, manipolare e mobilitare, bensì un “pubblico” (relativamente passivo) di telespettatori da blandire e rassicurare.

 

Il potere di manipolazione della televisione si rivelò naturalmente molto lontano da quello che Dick sembrava immaginare nei suoi romanzi. Ma, a dispetto del pessimismo che incupiva le sue distopie, proprio allora il “pubblico” iniziò a diventare il riferimento centrale dello spettacolo politico e il destinatario del messaggio di ogni leader. E più meno negli stessi anni in cui Dick pubblicava i suoi libri più famosi, anche nel Vecchio continente alcuni scienziati sociali iniziarono a comprendere che le trasformazioni comunicative, insieme naturalmente ai mutamenti della società e all’avvento del benessere economico, stavano modificando le relazioni tra cittadini e politica. Investendo in modo particolare quello che, fino a quel momento, era stato il principale organizzatore delle “masse”, e cioè il partito politico, il “moderno Principe” celebrato da Gramsci. A rendersene conto furono per esempio Otto Kirchheimer, che colse nella rapida trasformazione della socialdemocrazia tedesca l’annuncio del cath-all-party, o lo stesso Maurice Duverger, che, dopo avere ritenuto che la costruzione di grandi partiti di massa fosse una strada obbligata, intravide nel successo politico di De Gaulle il segnale della futura “personalizzazione” e persino l’inizio di una “democrazia senza partiti”. Ma al di là delle circostanze specifiche che alimentarono queste riflessioni, il dato che emergeva era la centralità politica del “pubblico”. Ciò significava che il canale televisivo consentiva all’aspirante leader di rivolgersi ‘direttamente’ agli elettori. Ma significava anche che incominciavano a dissolversi i “mondi separati” che avevano rappresentato il bacino di riferimento dei partiti ideologici e subculturali. E dunque quegli apparati di comunicazione che i partiti di massa avevano costruito incominciavano a diventare obsoleti, proprio perché non riuscivano a intercettare il “pubblico”, ma solo la piccola enclave degli iscritti e dei simpatizzanti.

 

Naturalmente l’avanzata del “pubblico” fu in Europa molto più lenta che negli Stati Uniti, e si compì pienamente solo tra gli anni Ottanta e Novanta, in coincidenza con la diffusione delle televisioni commerciali e la fine della Guerra fredda. Ma alla metà degli anni Novanta fu il politologo francese Bernard Manin a fissare la logica della “democrazia del pubblico” e a sostenere che questo nuovo assetto politico stava ormai sostituendo la vecchia “democrazia dei partiti”. Secondo Manin, a partire soprattutto dagli anni Settanta, una serie di processi aveva gradualmente eroso le basi su cui si era retto l’edificio della democrazia dei partiti, e si era così indebolito – talvolta fino a spezzarsi – il legame tra partiti e cittadini. Ciò non significava che i partiti non erano più considerati degni di fiducia. Più semplicemente, secondo Manin, era diventata progressivamente più fragile l’identificazione partitica, ossia quel legame (ideologico e affettivo) di vicinanza a un determinato partito che per vari decenni aveva spiegato il comportamento di voto. Una traccia di questa dinamica era la crescente volatilità elettorale, testimonianza del fatto che i singoli elettori erano ormai disposti a modificare la propria scelta tra una consultazione e l’altra, e che dunque i cittadini non erano più ‘vincolati’ dalle rispettive appartenenze. Ma un indizio ancora più rilevante, secondo Manin, era che gli elettori tendessero a scegliere, di volta in volta, in base alla personalità del candidato, al suo programma, alle sue specifiche qualità. Si trattava di quella tendenza alla “personalizzazione” della politica di cui si parla in Italia almeno da un quarto di secolo, e le cui cause rimandavano proprio alla centralità della comunicazione televisiva. Secondo Manin ciò determinava però l’affermazione di una nuova logica nei rapporti tra elettori e rappresentanti. Nella democrazia del pubblico, scriveva, “i votanti sembrano rispondere (ai termini particolari offerti in ciascuna elezione), piuttosto che semplicemente esprimersi (esprimere le loro identità sociali o culturali)”. In altre parole, gli elettori tendevano a comportarsi come il pubblico di un teatro, che risponde – con i fischi, con gli applausi, o col silenzio – alla performance di un attore. In termini analoghi, nella democrazia del pubblico ogni candidato prendeva l’iniziativa, avanzava una determinata linea di divisione, mentre il “pubblico” reagiva a questa proposta. E il politico correggeva o manteneva la propria linea.

 

L’ipotesi della democrazia del pubblico sopravvalutava la portata dell’erosione dell’identificazione partitica, che in realtà, per quanto indebolita, non era del tutto svanita, o era stata sostituita da altre forme di identificazione (per esempio con il leader). Al di là di questo, la formula della “democrazia del pubblico” coglieva però la tendenza di fondo verso cui sembravano indirizzati i sistemi politici occidentali. E, nonostante Manin sottovalutasse questo aspetto, consentiva di spiegare la tendenza centripeta che effettivamente caratterizzò la vita di molte democrazie (soprattutto europee) tra gli anni Ottanta e il primo decennio del XXI secolo. La centralità del “pubblico” non implicava infatti solo una pressione verso la “personalizzazione”. Ma comportava anche una convergenza verso il centro dei principali attori politici. L’affermazione di un grande media generalista come la tv – contestualmente alla dissoluzione delle identificazioni partitiche – rendeva cioè inevitabile cercare la vittoria elettorale al “centro”, ossia tentare di conquistare il voto dell’elettore mediano, collocato in una posizione “moderata” tra i due estremi della sinistra e della destra. Con la conseguenza che i grandi partiti che puntavano alla vittoria elettorale, non potendo accontentarsi del proprio bacino di elettori fedeli e militanti, dovevano moderare i loro richiami ideologici, attenuare la radicalità dei messaggi e scolorire l’intensità delle bandiere.

 

Non in tutti i sistemi politici europei la “democrazia del pubblico” si è davvero materializzata, e in alcuni come l’Italia – a dispetto di una marcata personalizzazione – si è anche scontrata con una nuova ma pervicace forma di identificazione “in negativo”, nutrita cioè più dall’ostilità verso qualcosa (verso un leader o uno schieramento) che dalla fedeltà verso determinati principi e posizioni. Ma in prospettiva storica è quasi scontato riconoscere nella “terza via” di Tony Blair quasi il paradigma della logica centripeta indotta dalla “democrazia del pubblico”: una logica in cui le differenze tra destra e sinistra, in termini di programmi e anche di valori, si fanno meno nette, e in cui invece le carte vincenti diventano la personalità e la credibilità dei leader.

A distanza di un ventennio è piuttosto facile oggi affermare che quella stagione si è ormai conclusa, sfidata dall’emergere di “populismi” di matrice molto diversa e dal profilo anche antitetico. E se certo per spiegare il fallimento (o l’esaurimento) della “terza via” possono essere chiamate (doverosamente) in causa dinamiche “strutturali” – che riguardano i mutamenti geopolitici, la crisi economica, l’assetto dell’Ue, il profilo demografico dei paesi occidentali – non possiamo però escludere che qualcosa riguardi proprio le sorti della democrazia del pubblico. Perché probabilmente quella stagione si è ormai conclusa. E perché le spinte alla polarizzazione che si registrano quasi ovunque in Occidente hanno anche a che vedere con il nuovo assetto che sta prendendo forma, nella misura in cui il web diventa il principale canale informativo per molti cittadini.

 

Ancora pochi anni fa la Rete era celebrata da molti come il luogo in cui realizzare una democrazia virtuale, una sorta di nuova agorà in cui realizzare una comunicazione pienamente orizzontale. Tutti sappiamo che queste utopie si sono infrante contro una realtà ben diversa, e con l’esperienza abbiamo anche compreso che il web e i social network non sono (o non sono quasi mai) la sede di pacate e ragionevoli discussioni, ma quasi sempre un’arena in cui si scontrano posizioni preconcette e in cui si diffondono dicerie prive di qualsiasi rispondenza reale. E così ben poco è rimasto delle speranze di chi confidava nella trasparenza offerta dalle nuove tecnologie e nella nascita di una matura cittadinanza digitale.

 

Dopo il referendum sulla Brexit e la lunga campagna presidenziale che ha portato alla Casa Bianca Donald Trump, in molti hanno lanciato allarmi sul potenziale distruttivo delle fake news, e la “post-verità” è diventata il centro di un’animata discussione sul ruolo delle “bufale” che circolano sul web e sulla possibilità di mettere in atto meccanismi per bloccare notizie evidentemente false. Con ogni probabilità questo dibattito è destinato a proseguire ancora a lungo, per il semplice motivo che fake news (magari più raffinate di quelle di oggi) non cesseranno di essere condivise sui social da utenti più o meno consapevoli. Ma in questa discussione quasi sempre ci si è dimenticati di riconoscere come la proliferazione delle notizie false sia in realtà il risultato di una modificazione strutturale delle relazioni tra cittadini e informazione. Una modificazione che tende a dissolvere il “pubblico” – inteso come aggregato unitario, composto dall’uditorio del medesimo spettacolo (prevalentemente televisivo) – e a trasformarlo in una molteplicità di segmenti sostanzialmente autonomi l’uno dall’altro, in una miriade di “bolle” in larga parte autoreferenziali e tendenzialmente polarizzate. Ed è proprio per questo che probabilmente stiamo passando – e forse siamo già passati – dalla democrazia del pubblico a una bubble-democracy, a una sorta di inedita, e per molti versi inquietante, democrazia di bolle.

 

Nel 2011 Eli Pariser, pioniere dell’attivismo online e organizzatore della prima campagna elettorale di Barack Obama, colse prontamente cosa stava avvenendo sul web. Nel suo “The Filter Bubble” segnalava infatti le conseguenze dirompenti che avrebbe prodotto la personalizzazione delle ricerche introdotta di Google il 4 dicembre 2009. Molto semplicemente, da quel momento l’algoritmo di ricerca Page Rank iniziò a restituire risultati più adatti al singolo utente. Cominciò così l’“era della personalizzazione” della Rete. In questi anni abbiamo imparato ad apprezzare i vantaggi degli algoritmi capaci di personalizzare le nostre ricerche. Memorizzando le nostre scelte passate, e confrontandole con quelle di utenti simili a noi, sono infatti in grado di proporci libri, ristoranti, luoghi di vacanza e film davvero vicini ai nostri gusti. E quando digitiamo un nome sulla maschera di Google i risultati si avvicinano effettivamente (e spesso in modo persino sorprendente) a ciò che stavamo cercando. Tanto che in molti casi è ormai sufficiente digitare solo le prime lettere della parola che ci interessa per ottenere suggerimenti spesso ben superiori alle nostre aspettative.

 

Gli algoritmi non si dimostrano però solo capaci di prevedere le nostre scelte e i nostri gusti (in modo che talvolta ci appare decisamente inquietante). Ma tendono a creare attorno a ciascuno di noi ciò che Pariser definiva una “filterbubble”, una bolla che filtra tutte le informazioni provenienti dal mondo esterno, facendo arrivare fino a noi solo ciò si conforma alle nostre opinioni, ai nostri gusti gastronomici e cinematografici, oltre che ovviamente alle nostre idee politiche. Per questo ognuno di noi tende a vivere dentro una “bolla” dalla quale vede un mondo “personalizzato”, costruito – per così dire – a propria immagine e somiglianza. Mentre tutto ciò che non si conforma ai nostri gusti semplicemente “scompare”, trattenuto dal filtro che lo separa dalla nostra bolla personale.

 

Un mondo di bolle autoreferenziali avrebbe probabilmente entusiasmato Dick, alimentando le sue visioni paranoiche, ma la manipolazione a cui pensava in molti suoi romanzi assumeva come presupposto l’anestetizzato e omogeneo pubblico televisivo degli anni Sessanta, e dunque proprio quel pubblico che tende oggi a dissolversi. La novità delle “bolle” non consiste d’altronde nella parzialità delle informazioni, o del punto di osservazione. Anche gli apparati comunicativi e i giornali di partito puntavano a proporre una determinata visione della realtà, che – per quanto si presentasse come “oggettiva” o persino “scientifica” – era sempre una “parziale”. E anche un’emittente televisiva o radiofonica, rivolgendosi a un pubblico di fedeli, può promuovere una rappresentazione “parziale” della realtà, una “verità di parte”. Una differenza importante che distingue quei “vecchi” media dalle bolle contemporanee è invece il fatto che in queste ultime tecnicamente non esiste un “pubblico”, nel senso che non esiste una sorta di platea – reale o virtuale – che assiste a uno spettacolo, che legge un testo, o che ascolta un programma radiofonico. All’interno della bolla, ogni individuo è solo, nel senso che – per quanto possa avere la sensazione di essere parte di una comunità – lo spettacolo che ha di fronte è “personalizzato”, è una raffigurazione parziale e limitata del mondo costruita “su misura” sulla base dei suoi gusti e delle sue preferenze consolidate nel passato. “In un’epoca in cui le informazioni condivise sono alla base di esperienze condivise”, ha scritto Pariser, paradossalmente “la bolla dei filtri è una forza centrifuga che ci divide”.

 

Ma un’altra differenza sostanziale che contraddistingue il nuovo contesto risiede nel fatto che quasi mai siamo realmente consapevoli (o non siamo consapevoli fino in fondo) di “vivere in una bolla”. E questo ha delle ovvie implicazioni, che non riguardano solo la penetrazione dei grandi colossi del web nella nostra privacy. Per quanto l’informazione sia sempre stata parziale, e per quanto i giornali (anche quelli privi di evidenti connotazioni politiche) abbiano sempre fornito rappresentazioni “parziali” del mondo, ogni singolo cittadino conservava, almeno nei contesti pluralistici, la possibilità di scegliere se acquistare o leggere una testata oppure un’altra. E anche se la tv aveva una capacità pervasiva ben superiore, il telecomando lasciava comunque al telespettatore la facoltà di cambiare canale, scegliendo se esporsi o meno a un determinato flusso informativo. Tutto questo viene in gran parte meno nel contesto comunicativo che sta prendendo forma. Perché nessuno di noi è realmente in grado di comprendere in che misura gli algoritmi ci stiano costruendo un mondo “su misura”. In altre parole, quando ci tempestano messaggi pubblicitari “personalizzati”, molto vicini alle nostre preferenze, siamo consapevoli che queste offerte sono il frutto del lavoro degli algoritmi. Ma quando cerchiamo una notizia sul web tendiamo comunque a pensare che le informazioni che ci raggiungono siano “obiettive”, “neutrali”, o che siano le stesse che tutti gli altri utenti stanno vedendo. Questo significa che non riusciamo fino in fondo a comprendere quanto sia spesso il filtro della bolla in cui ci troviamo. E, inoltre, questo non dipende (o non dipende in modo esclusivo) dalla nostra scelta consapevole.

 

Il mondo delle bolle ha certo grandi vantaggi, se non altro perché la capacità di previsione degli algoritmi ci rende spesso le cose molto più facili. Un inconveniente di non poco conto – che molti critici della Rete hanno evidenziato negli ultimi anni – consiste però nella riduzione della finestra da cui osserviamo il mondo, e dunque nella modificazione degli stessi presupposti del pluralismo e della discussione pubblica, oltre che della stessa libertà individuale. “Gli algoritmi ci hanno liberati dai viaggi di gruppo, dai punti di vista obbligati e dalle soste obbligatorie davanti ai panorami da souvenir”, ha scritto per esempio Dominique Cardon, ma al tempo stesso “contribuiscono ad assoggettare l’internauta a quella strada calcolata, efficace, automatica, che si adatta ai nostri desideri regolandosi, in segreto, sul traffico altrui”. E seguendo la strada che ci indicano gli algoritmi, senza rendercene conto perdiamo di vista il paesaggio, le strade alternative, i percorsi poco frequentati. In altre parole, la bolla in cui ci troviamo inconsapevolmente imprigionati elimina dalla nostra visuale i punti di vista alternativi e tutte le altre opzioni che non si accordano con quella che abbiamo adottato nel passato.

 

Ovviamente la discussione critica sull’ambivalenza degli algoritmi e sulle conseguenze del potere sulla libertà individuale è destinata a proseguire nel nostro prossimo futuro, per il semplice motivo che in un mondo contrassegnato dal sovraccarico di informazioni e dal “crollo dell’attenzione” il filtro “personalizzato” degli algoritmi diventerà uno strumento sempre più indispensabile per districarsi dalla marea di notizie, offerte e messaggi di cui saremo investiti. Ma una conseguenza che già oggi non possiamo sottovalutare riguarda il terreno specificamente politico. La nascita della bubble-democracy implica infatti non solo la frammentazione del pubblico in una molteplicità di segmenti, ma probabilmente anche una tendenza alla polarizzazione politica. Perché le bolle non tendono solo a essere autoreferenziali, ma anche a esprimere posizioni estreme, che spesso sono disposte persino a trascurare la veridicità delle informazioni e la stessa opportunità di verificare che le notizie abbiano un qualche fondamento nei fatti reali.

 

In questo caso le responsabilità non sono solo degli algoritmi, perché questi ultimi si limitano per molti versi a rafforzare meccanismi adottati spontaneamente dagli utenti della Rete. In altre parole, la “bolla” è in primo luogo costruita da ognuno di noi, che tende a interagire principalmente con chi ha opinioni simili, limitando al minimo gli scambi con quanto la pensano diversamente. Da questo punto di vista, la proliferazione delle bolle tende anche a combinarsi con una sorta di “tribalizzazione” non molto diversa da quella che molti anni fa aveva previsto Michel Maffesoli. E se la “tribalizzazione” riguarda le preferenze alimentari, l’esoterismo o le teorie del complotto, ovviamente coinvolge anche le preferenze politiche. A questo proposito molte ricerche hanno infatti riconosciuto che il comportamento degli utenti all’interno dei social network tende a essere, soprattutto per quanto concerne le informazioni politiche, tendenzialmente omofilo: in altre parole, la grande maggioranza degli utenti tende ad avere amici che condividono le stesse idee politiche e gli stessi valori, ma soprattutto si espone quasi esclusivamente a fonti di informazione che confermano le proprie opinioni.

 

Una ricerca piuttosto nota, pubblicata da Eytan Bakshy, Solomon Messing e Lada Adamic nel 2015, ha per esempio mostrato, sulla base di uno studio condotto su 10 milioni di account di Facebook, che sono gli stessi utenti a “chiudersi” in una bolla informativa, perché si scelgono amici in larga parte vicini al medesimo schieramento politico. Tra gli amici degli utenti “conservatori” solo il 20 per cento circa risultava infatti composto da “liberal”, mentre gli utenti “liberal” avevano non più del 18 per cento di amici “conservatori”. In altre parole, secondo questa indagine, ciascun singolo utente, più che esplorare il web per estendere la propria visione del mondo, tende a cercare conferme alla propria visione del mondo e alle proprie credenze, escludendo dunque tutto ciò che entra in conflitto con la propria narrazione. E naturalmente questa selezione iniziale viene rafforzata dagli algoritmi, col risultato che le notizie provenienti dal campo opposto risultano ulteriormente limitate.

 

Volontaria o involontaria che sia, la chiusura nella bolla, combinata con il processo di “tribalizzazione”, non può che favorire un processo di radicalizzazione. Già Cass Susstein, quindici anni fa, aveva individuato una tendenza alla “polarizzazione” dei gruppi, dovuta al fatto che, se persone con interessi e opinioni simili discutono tra loro (ed esclusivamente tra loro), alla fine finiranno col maturare una posizione sempre più estrema, subendo gli effetti di una suggestione reciproca. Il punto è che il venir meno del “pubblico”, e dunque anche del confronto con posizioni eterogenee, innesca proprio un meccanismo di polarizzazione, che porta ciascun gruppo a chiudersi rispetto a opinioni alternative e a rafforzare progressivamente la propria visione delle cose. Come molte ricerche hanno confermato in questi anni, i social network costruiscono cioè una sorta di echo chamber, una cassa di risonanza, chiusa rispetto al mondo esterno, in cui ciascuno di noi tende non solo a sentire sempre le stesse opinioni, ma a sentirle addirittura amplificate. Col risultato che ci convinciamo che il mondo la pensa proprio come noi, e che è quasi incredibile che ci sia qualcuno disposto a credere a una versione dei fatti diversa dalla nostra.

 

È evidente che proprio i meccanismi di polarizzazione e omofilia che caratterizzano l’echo chamber possono spiegare la proliferazione delle fake news. Una ricerca condotta nel 2014 dal Laboratorio di Computational Social Science dell’IMT di Lucca su un’echo chamber “complottista” e una “scientifica” ha mostrato per esempio una fortissima tendenza alla polarizzazione e all’omofilia nella trasmissione delle informazioni. In altre parole, la possibilità che un utente condivida un post condiviso in precedenza da un altro utente con la medesima visione del mondo (in questo caso “complottista” o “scientifica”) è risultata pari al 97 per cento. Ciò significa che le catene di trasmissione delle informazioni sono in larga parte, se non esclusivamente, omofile e interne alla medesima echo chamber. E questa tendenza appare più forte proprio in quegli utenti che utilizzano in modo più intenso i social network.

 

Nel 1895, al principio del suo pamphlet più celebre, Gustave Le Bon annunciò solennemente l’inizio della nuova “era delle folle”. Anche se non si poteva prevedere su quali basi si sarebbero fondate le società del futuro, scriveva Le Bon, “esse dovranno fare i conti con una nuova potenza, novissima sovrana dell’epoca moderna: la potenza delle folle”. Rileggendo oggi le pagine di Le Bon, è quasi inevitabile riconoscere molti elementi della “folla psicologica” che descriveva in quegli assembramenti digitali che popolano il web. Ed è stato tra gli altri il filosofo di origine coreana Byung-Chul Han a ravvisare qualche analogia tra la condizione in cui viviamo e quella che Le Bon aveva dinanzi. La nuova folla per Han è però uno sciame digitale, che “non possiede un’anima, uno spirito” e che “è composto da individui isolati”. Mentre la massa poteva marciare, lo sciame digitale non può farlo, perché è fugace, incoerente e destinato a dissolversi così come si è costituito.

 

Se la sagoma dello sciame è soprattutto un simbolo efficace di un’inquietudine diffusa sui rischi di un’identità “liquida”, è però anche una metafora capace di rappresentare la logica con cui si aggregano e si separano quelle bolle che popolano il web. E soprattutto è una metafora che consente di chiarire la differenza rispetto alle “masse” che i partiti novecenteschi puntavano a educare, a organizzare e a mobilitare. Certo anche quelle masse erano in alcuni casi almeno dei “mondi a parte”, dal momento che condividevano visioni “parziali” (talvolta persino settarie) della realtà. Ma quelle rappresentazioni, oltre a essere ben più durature delle “narrazioni” contemporanee, erano in gran parte il frutto di una costruzione teorico-culturale dei partiti novecenteschi.

 

E anche nel caso in cui non erano i partiti a creare quelle Weltanschauung, essi se ne facevano però custodi, rafforzandole e coltivandone i simboli di identificazione, grazie a solidi apparati di comunicazione, a associazioni collaterali specializzate, alla propaganda capillare condotta sul territorio. Quel mondo – lo sappiamo bene – aveva molti pregi e molti difetti, ma conduceva a una polarizzazione che sostanzialmente diversa da quella di oggi, per il semplice motivo che nella bubble-democracy i partiti (almeno per ora) non sono né i costruttori, né i principali amministratori delle narrazioni e dell’emotività degli sciami digitali. Oggi i partiti – o ciò che ne resta – non sembrano anzi minimamente in grado di governare le traiettorie degli sciami digitale. Piuttosto, sembrano destinati a ricorrerne le evoluzioni, nel tentativo di intercettarne gli umori, gli entusiasmi, gli scoppi di ira, o di aggregare almeno per un attimo le “bolle” attorno una visione unitaria. E soprattutto sembrano per molti versi persino costretti ad inseguire e alimentare la loro spinta alla “polarizzazione”. Con effetti esattamente opposti a quella della democrazia del pubblico, perché in questo caso la tendenza non è più centripeta, bensì centrifuga. Nella bubble-democracy, mentre l’elettore mediano perde la propria centralità, per vincere le elezioni diventa molto più importante motivare ad andare alle urne quegli elettori che altrimenti sarebbero orientati verso il “non voto”, mobilitandoli con messaggi radicali, fondati sulla “polarizzazione”. E dato che i flussi comunicativi e informativi tendono a non passare più dai grandi media generalisti, diventa invece indispensabile entrare nei reticoli ‘tribali’ in cui si aggregano le bolle, sfruttando l’onda di movimento dello “sciame digitale” e, ovviamente, assecondandone la spinta alla polarizzazione.

 

C’è ovviamente un’obiezione quasi scontata all’ipotesi che stia prendendo forma una bubble-democracy, e che la tendenza alla polarizzazione e alla frammentazione del pubblico sia un destino inevitabile. E questa obiezione non può che sottolineare come la televisione sia ancora il principale canale informativo per molti cittadini, come lo spettacolo politico passi ancora prevalentemente proprio dalla tv, e come dunque la parcellizzazione del pubblico in bolle autoreferenziale sia un fenomeno tutto sommato marginale e limitato a piccole nicchie, prevalentemente concentrare nella fasce di età più giovani. Si tratta in effetti di un’obiezione in larga parte fondata. Ciò nondimeno è molto probabile che il nostro prossimo futuro sarà sempre più popolato di bolle, echo chamber e “sciami digitali”, e che il “pubblico” sia davvero destinato a dissolversi. Secondo il rapporto 2016 sulle digital news realizzato dal Reuters Institut, nelle democrazie occidentali la televisione rimane effettivamente un importante canale di accesso alle notizie, ma la tendenza procede verso una costante crescita dell’importanza del web, che d’altronde è già diventata una fonte rilevante per il 73 per cento dei cittadini. Ma il dato forse più significativo è che sono proprio i social network – che peraltro contribuiscono a “frammentare” anche i contenuti televisivi – a diventare sempre più incisivi, perché già oggi è ormai il 46 per cento degli intervistati (quasi il doppio rispetto al 2013) a dichiarare di utilizzare questi strumenti, e in special modo Facebook, come fonte di informazione.

 

Per quanto sia sempre difficile fare previsioni in questo campo, è molto probabile che questa tendenza sia destinata a crescere, anche come conseguenza quasi inevitabile del “crollo dell’attenzione”. Tutto fa dunque pensare che siamo ormai entrati stabilmente nell’“era dello sciame” e della bubble-democracy. E come diceva Le Bon più di un secolo fa a proposito della “potenza delle folle” – chi non si rassegna a essere governato dalla logica emotiva e irrazionale del neo-tribalismo del web dovrà necessariamente impadronirsi della “psicologia dello sciame”. D’altronde, possiamo starne certi, in qualche parte del mondo, un aspirante Machiavelli della bubble-democracy sta già scrivendo un Principe 3.0.

 

 

Damiano Palano, professore ordinario di Filosofia politica. Insegna presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

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