Macron, Renzi, Trudeau

L'alternativa è la sinistra Fighetty

Claudio Cerasa

Trudeau, Macron, Renzi e il modello della sinistra dei doveri e anti Piketty

E se l’unica alternativa possibile alla sinistra Piketty fosse la sinistra Fighetty? Le storie sono molto diverse, i paesi non sono paragonabili, le parabole sono differenti ma tra di loro, se ci si ferma un attimo, esiste qualcosa in comune che merita di essere messo in luce: qualcosa che riguarda un tratto culturale che contrappone in modo netto la sinistra alla Mélenchon e quella alla Macron. Loro sono Justin Trudeau (primo ministro canadese, progressista, 46 anni), Emmanuel Macron (prossimo probabile presidente francese, 39 anni, indipendente, cultura progressista) e Matteo Renzi (segretario del più importante partito progressista d’Europa, il Pd) e tutti e tre, come ha notato ieri in un corsivo il quotidiano francese Le Parisien, rappresentano il volto di una nuova sinistra possibile (con la p molto minuscola) che a differenza della sinistra alla Mélenchon ha scelto di non ciurlare nel manico di fronte ai populisti, occupando una precisa casella della politica: quella, scrive Le Parisien, del “pensiero liberale che supera i tradizionali steccati dei partiti posizionando nel cuore del divario tra destra e sinistra per combattere ogni forma di populismo, dall’America all’Europa”.

 

Da mesi (vedi intervista di tre giorni fa a Bloomberg Businesweek) Trudeau ha scelto di interpretare il ruolo dell’anti Trump. Domenica prossima Macron proverà a essere in tutto e per tutto l’anti Le Pen. E nei prossimi mesi Renzi proverà a essere in tutto e per tutto l’anti Grillo (speriamo). I tre leader della sinistra anti Piketty (Piketty ha consigliato in Spagna Podemos, in Inghilterra Corbyn, in Francia Hamon, e non serve aggiungere altri) non hanno in comune solo una propensione naturale a utilizzare in modo disinvolto gli strumenti della comunicazione ma hanno anche un’altra caratteristica iscritta nel proprio Dna: portare avanti la missione quasi impossibile di rendere sexy le idee della gauche ringiovanendo il pensiero progressista, dando forma a una terza vita del riformismo (terza vita che, a differenza dell’epoca della terza via, oggi non può contare sul supporto dell’asse anglosassone) e iscrivendosi con chiarezza all’interno del perimetro della globalizzazione e dell’apertura. Macron lo ha fatto difendendo l’Europa (e l’euro) dagli attacchi della Le Pen. Trudeau lo ha fatto trasformando la difesa dell’Accordo nordamericano per il libero scambio (Nafta) e del trattato di libero scambio tra Ue e Canada (Ceta) in una battaglia per mettere a nudo i limiti del protezionismo (e le virtù dell’apertura dei mercati). Renzi lo ha fatto cambiando la pelle della sinistra italiana attraverso la battaglia sul Jobs Act (vera piattaforma da cui ripartire, altro che lavoro di cittadinanza) e difendendo alcune coordinate della globalizzazione, compreso il Trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico (Ttip) e a suo modo l’Europa (anche se su questo punto l’europeismo di Renzi è più tiepido di quello di Macron).

Le traiettorie dell’internazionale degli anti Piketty ci dicono che esiste una sinistra matura che ha capito che il pensiero progressista deve abbinare a una politica dei diritti (e su questi punti sia Renzi, sia Trudeau, sia Macron sono alternativi al centrodestra) anche una solida politica dei doveri e che ha compreso che per combattere i populisti bisogna scommettere sul capitale e sul libero commercio. L’economia globale o la governi o la subisci. La traiettoria è chiara. L’alternativa è forte. Il potenziale c’è. Trudeau e Macron stanno scommettendo su questa linea. Lo ha fatto anche il primo Renzi. Sarebbe un peccato se il secondo Renzi – che non ha detto una parola sui voucher e che gioca a fare il nazionalista con Alitalia – abbandonasse questa strada solo per occupare la casella dell’alternativa al governo Gentiloni. Il risultato delle primarie del Pd è chiaro. Da qui ai prossimi mesi resta solo da capire una cosa: se è Renzi ad aver cambiato la ditta del Pd o se è la ditta del Pd ad aver cambiato Renzi.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.