Matteo Renzi con Barack Obama (foto LaPresse)

Ma che succede se vince il Sì?

Claudio Cerasa
Lo Yes di Obama al referendum aiuta a superare la retorica delle cavallette e offre elementi utili per spiegare perché l’America ha paura dell’Europa e perché Renzi può fare con la politica quello che Draghi fa con la moneta.

Nell’ambito della sua generosissima campagna contro il virus letale dell’arroganza in politica, l’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema, due giorni fa, ha commentato, naturalmente senza arroganza, l’incontro tra Matteo Renzi e Barack Obama alla Casa Bianca, sostenendo che l’importante apertura di credito offerta dal presidente americano al premier italiano relativamente al referendum costituzionale sia viziata da un problema di fondo. Barack Obama, sostiene Massimo D’Alema, non conosce la riforma costituzionale – “non credo che il presidente degli Stati Uniti abbia studiato i 47 articoli della Costituzione italiana e abbia voluto esprimere un giudizio di merito” – ed evidentemente si è limitato a dare solo un giudizio politico sul passaggio referendario. Un giudizio, tra l’altro, viziato a sua volta da un altro problema. Secondo D’Alema, infatti, Obama è cascato come un citrullo nella trappola tesa dal presidente del Consiglio, che avrebbe convinto mezzo mondo a votare Sì – compresa la fondazione di D’Alema e il Partito socialista di cui fa parte la fondazione che guida D’Alema – sostenendo che la vittoria del No è destinata a segnare inevitabilmente la fine dell’umanità, l’apocalisse, il giorno del giudizio, l’arrivo delle cavallette. La tesi di D’Alema ha un suo fascino (“Io, diciamo, ho capito la riforma meglio di Obama”) e una sua linearità che non ci permettiamo di mettere in discussione.

 

Ma se il presidente della fondazione dei socialisti europei ci consente di offrire una interpretazione diversa rispetto allo “Yes” consegnato da Obama a Renzi nel corso dell’ultima cena di stato ufficiale dell’attuale presidente degli Stati Uniti si può facilmente capire che dietro il Sì obamiano non c’è solo una preoccupazione per quello che l’Italia rischia di perdere in caso di vittoria del No ma c’è soprattutto un messaggio per così dire di speranza rispetto a quello che potrebbe diventare l’Italia, ed evidentemente anche Renzi, nel caso in cui il Sì dovesse affermarsi a dicembre. Proviamo allora a formulare un ragionamento che riguarda un tema e una chiave di lettura che misteriosamente il presidente del Consiglio ha scelto di sacrificare nella retorica utilizzata in questa campagna elettorale per provare a vincere il prossimo referendum: non che succede se vince il No, ma che succede se vince il Sì. Nelle parole di Obama, e forse anche il leader Maximo lo sa, si indovina una consapevolezza esplicita rispetto a quello che potrebbe rappresentare l’Italia in Europa in caso di vittoria del Sì. E da questo punto di vista ha involontariamente ragione D’Alema quando dice che il “Yes We Can” di Obama ha anche un tratto politico.

 

I benefici della riforma Costituzionale, in caso di approvazione, saranno infatti sperimentati nella prossima legislatura, con un prossimo governo. Ma in questa legislatura, ovvero nel breve termine, la vittoria del Sì in Italia potrebbe avere un effetto politico importante, sintetizzato bene lo scorso 17 ottobre dal Washington Post in un passaggio di un articolo dedicato al presidente del Consiglio: “Se Renzi riuscirà a superare lo scoglio della consultazione referendaria, sarà uno degli uomini politici più forti d’Europa”. L’affermazione non è esagerata se si prova a immaginare quello che sarà il 2017: con la Francia che andrà al voto e che difficilmente avrà lo stesso presidente che si ritrova oggi; con la Germania che andrà al voto e che probabilmente avrà una Merkel meno forte rispetto a quella uscita delle ultime elezioni; con la Spagna che non si sa che governo avrà ma che si sa che rischia di avere ancora a lungo un governo precario; e con il Regno Unito che proprio il prossimo anno formalizzerà la sua definitiva uscita dall’Unione europea. In quel quadro, complici due appuntamenti importanti anche dal punto di vista simbolico che l’Italia ospiterà sul suo territorio (dal G7 a Taormina alle celebrazioni per il 60esimo anniversario del Trattato di Roma), Renzi potrebbe avere concretamente l’occasione di far pesare di più l’Italia in Europa, di avere un impatto sull’agenda europea e di trasformarsi in un motore in grado di esercitare in un’Europa in decadenza, immobile, imbelle, in crisi di legittimità, incapace di rappresentare per il mondo libero quello che rappresenta l’America, una leadership forte e coraggiosa – sul modello di quella esercitata nel 2005 da Tony Blair ai tempi della sua breve permanenza alla guida del Consiglio europeo. Il “go Renzi go” di Obama lo si spiega dunque adottando questa lente di ingrandimento: il presidente americano non pensa di certo che la fine del bicameralismo perfetto italiano sia il tema centrale dell’agenda globale ma, come molti, crede che la vittoria del Sì offrirà all’Europa una leadership – per di più non protezionista – di cui l’Europa potrebbe avere un disperato bisogno (l’invito perentorio rivolto a Renzi a rimanere in sella al governo anche in caso di vittoria del No potrebbe avere un peso qualora il premier dovesse essere sconfitto a dicembre).

 

Da questo punto di vista, la consapevolezza del premier italiano di potersi giocare in Europa una partita importante, da disruptor, in caso di vittoria del Sì spiega bene anche la battaglia sul deficit che il governo italiano ha deciso di portare avanti con la Commissione europea sulla legge di Stabilità. La battaglia di oggi si gioca sui decimali del deficit ma in caso di vittoria a dicembre l’allargamento più estensivo e immediato dei vincoli europei (in particolare il tre per cento, in particolare il Fiscal compact) diventerà il cavallo di Troia attraverso il quale Renzi proverà ad abbattere il famigerato muro dell’austerità. Non si tratta di dover dare un giudizio di merito sul fatto che tutto questo possa accadere davvero (e non si tratta neppure di ricordare come l’Europa di oggi sia debole anche perché si è ritrovata ad affrontare alcuni delicati dossier di politica estera in presenza di un’America debole che negli ultimi otto anni ha scelto di seguire la regressiva politica del leading from behind). Si tratta, stavolta, solo di mettere insieme i puntini e provare a interpretare a mente fredda il senso di un’investitura importante ricevuta dal più giovane presidente del Consiglio di un paese europeo. Da questo punto di vista, quella di Obama è una grande scommessa politica. Sul futuro dell’Italia ma soprattutto sul futuro di un’Europa che non può avere alcun futuro concreto se continuerà a illudersi di poter vivere facendo leva solo ed esclusivamente sulla generosità monetaria della Banca centrale europea.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.