Matteo Salvini a "Porta a Porta". E' tra gli esponenti del No al referendum (foto LaPresse)

L'irresistibile purezza del No

Salvatore Merlo
Da Monti a Parisi, persino le elité liberali e tecnocratiche accarezzano  per il verso giusto lo spirito del tempo. Ciascuno ha qualcosa da farsi perdonare e si sintonizza con l’Italia dei No. Un rifugio e una trappola.

Adesso che persino Mario Monti, l’uomo che in Italia ha cambiato le pensioni, proprio lui che ha sfidato il malcontento con la sua famosa agenda delle riforme, adesso che persino lui si è schierato per il No al referendum, viene da pensare che in questa parola d’una sillaba, “No”, appunto, si concentri davvero una formidabile e magica potenza evocativa, uno stato d’animo congenito, un’abitudine, uno strapotente riflesso condizionato. Il No è d’altra parte uno stile, un rifugio, e nel nostro paese ha persino avuto una propria fascinosa grazia, una sua remota nobiltà, con rintocchi metafisici che evidentemente un po’ distorti riecheggiano ancora adesso. Era No la risposta dei dodici professori universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo trionfante, andando così incontro ai più duri pedaggi, mentre Benedetto Croce al contrario consigliava di dire Sì perché “era meglio continuassero a insegnare per mantenere viva la cultura democratica”, e mentre l’Italia si riempiva di manifesti che sotto il mascellone stilizzato di Mussolini scrivevano la parola Sì, come indigeribile imposizione e tributo d’obbedienza.

 

E così ancora oggi il No in Italia seduce tanto gli arrabbiati, che nel No va da sé ritrovano sempre la loro patria, quanto i professori da tribuna e da salotto, i pifferai ideologici, gli intellettuali oracolari che non si sporcano mai; seduce tanto la vecchia sinistra, che nel No ritrova lo spirito sentimentale di chi rimpiange il passato e vorrebbe fermare l’attimo fuggente, quanto gli insospettabili uomini dell’establishment come Monti, appunto, o come Stefano Parisi, che vogliono invece farsi perdonare qualcosa, o comunque cercano di stare “dalla parte giusta” del mondo, almeno per una volta, malgrado il contorno di tutta la paccottiglia, malgrado la lingua sbrigliata, i bavagli, la scatoletta di tonno, le urla “al golpe al golpe” e “siete tutti mafiosi”. E d’altra parte il No è a costo zero, è il vero mainstream, sembra accarezzare, e senza sbavature nell’imprevisto, lo spirito del tempo, quello della Brexit e del No euro, che sono l’ultima evoluzione di quella variegata “formula del No” che in Italia da tempo immemore fa parte di un ricco armamentario adatto a fronteggiare qualsiasi evenienza – No Tav, No Vat, No Tap, No Triv, No Muos, No Ponte, No Glutine, No Global – e che non da oggi viene usata esattamente nello stesso modo in cui il superstizioso ha pronta una varietà di scongiuri per ogni fenomeno iettatorio che gli si possa parare davanti: gatto nero, cappello sul letto, corteo funebre, numero 17… E così il No affascina persino quelle élite che forse dovrebbero temerlo, e che altrove si sono schierate per il Sì, come in Inghilterra, ma perdendo (e perdere non è mai bello).

 

Come ha spiritosamente raccontato Fedele Confalonieri non molto tempo fa, “votare No fa fino”. Al contrario, ogni volta che ci si esprime per il Sì, nella migliore delle ipotesi, si finisce come l’ubriaco che racconta la sua vita a un lampione. Ed è forse per questo che nelle conversazioni, persino a cena con gli amici, sostenere il Sì è difficilissimo, lo devi spiegare bene, devi entrare nei dettagli del famoso e fumoso merito, e tuttavia sempre resta nell’interlocutore la sensazione che tu, sostenendo le ragioni del Sì, stia accarezzando in realtà la secolare tradizione cortigiana d’Italia – deferenza servile verso i potenti, ossequio in cambio di benefici. Se voti Sì fai “slurp!”, come direbbe qualcuno. Il No è invece semplice, di una potenza chiara è ineguagliabile, autoevidente, libero e un po’ rivoluzionario pure. Viene pronunciato o scritto con una sorta di mesta, solenne gravità, scuotendo impercettibilmente la testa, e ha il potere di accendere all’istante trentasei canali semantici in alta definizione. Non c’è niente da spiegare, se dici No. Il No è combattivo come i raduni di piazza, è veloce come la pubblicità, è una moda gratuita che affascina perché esprime tutto il concentrato delle situazioni nette, e forse consente anche, a chi lo pratica, di credere in tutta onestà d’essersi battuto con decisione, in mezzo alla genuflessione generale, contro le più truculente minacce politiche della nostra epoca, cioè contro Matteo Renzi e la sua riforma costituzionale. Ecco dunque le parole buttate lì, come dentro un volantino degli anni Settanta, che a volte davvero pare di stare dentro un film di Gianni Amelio, di Marco Tullio Giordana o di Marco Bellocchio, un film sul Sessantotto o sulla Resistenza, o forse sulla Resistenza e il Sessantotto insieme, anche se in realtà, basta guardarsi un po’ intorno, non c’è nessuna scapigliatura ribelle nel No di maggioranza, mentre per il Sì, ormai, fuggita persino l’élite tecnocratica e liberale, ci sono rimasti soltanto Maria Elena Boschi e Renzi. Amiamo più la purezza del No che l’accento inclinato del Sì, e non da oggi.

 

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.