Commissione Bilancio. Audizione di Pier Carlo Padoan (foto LaPresse)

Manovra strabica, opposizioni cieche

Redazione
Luci, ombre, sogni della Stabilità. Ma chi la critica la voleva peggiore.

Entro la mezzanotte di ieri il governo italiano doveva presentare alla Commissione europea la legge di Bilancio approvata venerdì in Consiglio dei ministri. Nessun commento da Bruxelles prima di guardare il contenuto e i dettagli della manovra, ma senz’altro partirà un tira e molla con Roma per la decisione del governo di far salire il rapporto deficit/pil al 2,3 per cento, meno del 2,4 per cento dell’anno in corso ma più di quanto pattuito in anticipo per quest’anno (1,8). Probabilmente ci saranno discussioni anche accese con la Commissione, visto il clima della campagna referendaria, ma alla fine è difficile che Bruxelles si impunti su qualche decimale, proprio perché l’eccessiva rigidità rischierebbe solo di avvantaggiare le forze populiste e più fiscalmente irresponsabili all’inizio di un lungo ciclo elettorale decisivo per tutto il continente.

 

L’esito prevedibile del braccio di ferro con l’Europa – la Commissione dirà che l’Italia si discosta dal percorso di rientro del deficit e il governo ribadirà che il deficit è comunque in calo e sotto il fatidico 3 per cento – sarà che l’esecutivo la spunterà e avrà alcune risorse in più da spendere. Come? Sui 27 miliardi totali, 15 miliardi (quindi oltre la metà) serviranno per sterilizzare le clausole di salvaguardia, cioè per non far scattare gli aumenti di tasse già previsti. E’ una misura necessaria, ma serve a lasciare le cose come stanno. La parte positiva della manovra è quella che riguarda le imprese, con i provvedimenti volti ad alleggerire il carico fiscale e stimolare gli investimenti: gli incentivi all’innovazione con il piano “Industria 4.0” voluto dal ministro Carlo Calenda (1,4 miliardi nel 2017 e 13 miliardi nel triennio), i superammortamenti, il taglio dell’Ires dal 27,5 al 24 per cento, il finanziamento del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese (1 miliardo), la riduzione di Iri e Irpef agricola e la detassazione del salario di produttività, volta a favorire la contrattazione di secondo livello.

 

Questo pacchetto di provvedimenti punta a ridurre la pressione fiscale, stimolare gli investimenti e aumentare la produttività, l’unica formula possibile per avere una crescita dell’economia e dell’occupazione sostenibili nel tempo. Si può dire che andava fatto di più, ma l’obiettivo è condivisibile. La manovra ha anche dei punti deboli, il più grande dei quali – come già scritto su queste colonne in tempi non sospetti – è costituito dalle risorse destinate alle pensioni: tra aumento delle quattordicesime, ennesima salvaguardia per gli esodati, anticipo pensionistico e altre agevolazioni, fanno 7 miliardi in tre anni (addirittura un miliardo in più rispetto ai 6 annunciati). Sempre in ragione del ciclo elettorale, ci sono poi quasi 2 miliardi destinati al pubblico impiego, tra rinnovo dei contratti e assunzioni. Un capitolo delicato riguarda quello delle coperture, che derivano per una parte da risparmi nell’acquisto di beni e servizi e nella riorganizzazione di fondi (una spending review che però finirà in nuova spesa) e per l’altra parte dalla nuova voluntary disclosure (2 miliardi) e dal taglio delle sanzioni sulle cartelle di Equitalia che dovrebbe far emergere 4 miliardi di gettito in più.

 

Il tutto si terrebbe all’interno di un quadro macroeconomico che prevede una crescita all’1 per cento, considerata da molti ottimistica. Sono quindi fondate alcune critiche alla manovra, soprattutto da parte di chi avrebbe voluto meno bonus e regalie elettorali sul fronte della spesa, più attenzione ai giovani invece che ai pensionati, maggiore incisività sul la riqualificazione e sul taglio della spesa pubblica, magari attraverso un riordino del sistema delle detrazioni fiscali, e una concentrazione delle risorse sulla riduzione delle aliquote. Da questo punto di vista la legge di Stabilità fa qualcosa ma poteva fare di più, non sarà rivoluzionaria ma neppure manderà gambe all’aria i conti pubblici, ha un occhio rivolto alla crescita economica nel medio termine e l’altro che guarda alla crescita elettorale nel breve termine, non sarà miope ma è un po’ strabica.

 

C’è un problema però quando ci si sposta dal campo delle valutazioni degli osservatori esterni a quello della lotta politica, perché su questo terreno le critiche di tutte le forze di opposizione vanno in direzione opposta a quella desiderata. Per i sindacati le risorse destinate a pensioni e statali sono poche, opinione condivisa dai partiti d’opposizione che inoltre non contestano al governo di aver tagliato poco la spesa pubblica, ma dell’esatto contrario. Anche sul fronte del deficit, non si è sentita alcuna voce che avrebbe voluto “meno flessibilità” e un rientro più veloce verso il pareggio di bilancio: tutti i partiti, uniti nel No alla manovra (e al referendum) e che accusano il governo di aver elargito mance per comprare il consenso, in realtà propongono di spendere di più per il medesimo obiettivo. Questa legge di Bilancio forse non è il massimo, ma politici e sindacalisti che la contestano la volevano peggiore.