Matteo Renzi all'assemblea di Coldiretti a Firenze (foto LaPresse)

Un giorno con Renzi per capire cosa vuol dire che la sinistra può vincere le elezioni solo guardando a destra

Claudio Cerasa
La riforma istituzionale e il futuro della sinistra sono sfide che nascondono rischi infiniti per il premier. E l’incontro del presidente del Consiglio con Flavio Tosi diventa la fotografia del Partito del referendum.

Martedì scorso abbiamo trascorso una giornata con il presidente del Consiglio, seguendolo in un piccolo viaggio tra Milano e Verona, passando da una visita all’ospedale San Raffaele (9.50), a un giro alla mostra organizzata in Triennale da Salini Impregilo per i suoi 110 anni di storia (10.45), a uno speech al Piccolo Teatro Grassi per partecipare a un evento organizzato da Human Technopole (11.50), a una passeggiata a Verona con il sindaco Flavio Tosi (14.15), a un giro veloce in una casa di cura per gli anziani di Verona (14.30), a un incontro a porte chiuse all’auditorium Glaxo con il presidente di Confindustria Verona, i vertici di Glaxo e il ministro Calenda (14.50) e a un incontro a porte aperte con i membri di Confindustria Verona (15.45). Nel corso della mattinata e del pomeriggio trascorsi insieme, tra un appuntamento e un altro, tra chiacchierate formali e informali, abbiamo provato a mettere a fuoco un concetto importante che il capo del governo ha consegnato ieri a questo giornale e che riguarda quello che sarà il filo conduttore dei prossimi mesi di campagna elettorale: il referendum costituzionale, ha detto Renzi, si vince andando a cercare i voti della destra. Già, ma che vuol dire? E soprattutto, come si fa? E che conseguenze ha questo nella vita del Pd?

 

Nel corso della giornata passata con Renzi ci sono stati molti momenti in cui l’approccio del presidente del Consiglio è emerso alla luce del sole. E’ emerso in mattinata quando Renzi ha scelto di lanciare al convegno di Salini Impregilo un messaggio berlusconiano come quello del ponte sullo Stretto – l’intervento non è stato casuale ma è stato studiato a tavolino con i collaboratori durante il volo mattutino tra Roma e Milano. E’ emerso nel tardo pomeriggio quando Renzi ha scelto di dialogare sui temi dell’Industria 4.0 con i tosti e diffidenti delegati di Confindustria Verona –  800 posti prenotati, 1.200 richieste ricevute, 400 prenotazioni respinte (nella sola giornata di martedì Renzi è intervenuto in quattro occasioni, parlando più o meno di fronte a 2.500 persone). E’ emerso nel corso della giornata quando ha ammesso di essere diventato uno stalker del sindaco di Milano Giuseppe Sala – Renzi nelle ultime due settimane è stato tre volte a Milano per visite ufficiali, 13 settembre, 20 settembre, 28 settembre, e ha scelto esplicitamente di trasformare il capoluogo lombardo nel simbolo di tutto quello che l’Italia potrebbe diventare in caso di vittoria del sì al referendum costituzionale, arrivando persino ad affidare al rettore del politecnico di Milano, il bravo Giovanni Azzone, il compito di guidare il progetto Casa Italia per la ricostruzione post terremoto. E’ emerso infine durante la mattinata quando il presidente del Consiglio ha ragionato con i suoi collaboratori sulle trasmissioni giuste a cui partecipare per parlare agli elettori di destra – la chiacchierata da Del Debbio, su Rete 4, è solo la prima di una lunga maratona sulle reti Mediaset. Ma è emerso soprattutto in un momento preciso della giornata, quando nel pomeriggio, a Verona, il presidente del Consiglio ha incontrato il sindaco di Verona Flavio Tosi. E la storia di Tosi, da un certo punto di vista, è perfetta per capire contraddizioni, prospettive e futuro del progetto renziano. Tosi è sindaco di Verona da quasi dieci anni. E’ stato a lungo un dirigente della Lega, prima di entrare in rotta di collisione con Matteo Salvini. Nel 2015 sceglie di candidarsi alla guida della regione contro il leghista Luca Zaia. Viene espulso dalla Lega. Zaia vince. Tosi perde la sua scommessa. Resta a fare il sindaco di Verona e nel corso dei mesi decide di avvicinarsi al presidente del Consiglio arrivando perfino a mettere a disposizione del governo i voti di tre senatori molto vicini al primo cittadino veronese (Patrizia Bisinella, Raffaela Bellot e Emanuela Munerato).

 

Tra Tosi e Renzi nasce un rapporto cordiale al punto che Tosi decide di dire esplicitamente quello che molti dirigenti del Pd faticano a dire con chiarezza: sì al referendum. Il sì di Tosi è un sì che fa bene a Renzi (Tosi alle ultime regionali è arrivato quarto mettendo da parte però l’11 per cento dei voti della regione). Permette al presidente del Consiglio di allargare la truppa dei volti di centrodestra che fanno parte del fronte del sì (Tosi, Pera, Urbani) e dà la possibilità al segretario Pd di dimostrare che il progetto di partito della nazione è qualcosa di più di una semplice trovata giornalistica. Allo stesso tempo però il sì di Tosi apre una questione importante che in caso di vittoria al referendum Renzi non potrà non affrontare: come è possibile, stando solo al caso di Verona, che l’ex sindaco leghista dice sì al referendum mentre, per esempio, il capogruppo del Pd al comune di Verona dice che voterà no al referendum costituzionale? Sono le 14.45 di martedì 28 settembre. Renzi è intervistato da alcune tv regionali (Tele Arena, Telenuova, il tg regionale). Tosi si siede accanto a noi e scambia due battute sul tema.

 

“E’ un paradosso, certo, ma in politica ormai è in atto una scomposizione oggettiva e tutto può accadere. Il prossimo anno, per esempio, si voterà a Verona. Ho intenzione di ricandidarmi. E non escludo che il Pd si possa dividere e che questa città possa diventare il primo vero incubatore del partito della nazione”. Pausa, Tosi riprende. “Nella fase di scomposizione ci metto anche la Lega. Credo sia in corso un bel duello: l’unico che mi sembra intenzionato a soffiare forte sul vento del no al referendum è Matteo Salvini. Se vince il no, Salvini diventa più forte. Se vince il sì, la Lega torna a essere più dei governatori, più di Maroni e di Zaia. Non a caso nessuno dei due, tra Maroni e Zaia, si sta spendendo troppo nella battaglia per il no”. Il caso di Tosi è emblematico della sfida nella sfida che si nasconde nella partita del referendum. Il voto del 4 dicembre non servirà solo a misurare la volontà del paese di seguire Renzi sulla proposta di riforma costituzionale. Sarà qualcosa di più: sarà un voto anche sulla capacità del presidente del Consiglio di allargare il perimetro del Pd, dimostrando da un lato alla sinistra che non c’è alternativa al progetto renziano e dimostrando dall’altro lato al centrodestra che non c’è persona in Italia che meglio di Renzi sappia portare fino in fondo le battaglie combattute ma perse da Berlusconi durante i suoi anni al governo (la riforma del lavoro, la riforma della Costituzione, l’articolo 18 e magari un giorno il ponte sullo Stretto).

 

La scommessa di Renzi è difficile perché i volti del no sono tanti mentre i volti del sì sono pochi. Ma nonostante questo qualche punto certo il presidente del Consiglio lo ha. Proviamo a fare due calcoli. I sondaggisti dicono che al referendum costituzionale andranno a votare circa 20 milioni di persone. Al Pdr (il Partito del referendum) servono circa 11-12 milioni di voti per assicurarsi la vittoria. Un pacchetto pari a quattro milioni di voti è quello che viene portato in dote al Pdr dalle adesioni arrivate da Confindustria (240 mila iscritti), Coldiretti (circa 1,5 milioni di iscritti) e poi Cna, Confcooperative, Confartigianato, Cisl, Uil Confapi, Confimi, LegaCoop, Alleanza delle Cooperative, un pezzo di Ance, un pezzo di Comunione e Liberazione, il mondo delle Acli. Poi c’è il Pd (8 milioni di voti nel 2013 Bersani, 12 milioni di voti Renzi nel 2014). Poi, naturalmente, ci sono gli elettori del centrodestra. I calcoli sono imperfetti ma sono quelli che ha in testa Renzi. Nel 2008 Berlusconi ottenne 13 milioni di voti. Nel 2013 ne prese 7 milioni. Significa che in giro per l’Italia ci sono circa 5 milioni di elettori in cerca di autore. Giocare con i numeri non serve a molto ma può aiutare a definire un percorso e a inquadrare una traiettoria. La traiettoria ci dice che Renzi a dicembre si gioca tutto, ovvio. Si gioca tutto sulla riforma. Si gioca tutto sul governo. Ma si gioca tutto sulla sua capacità di allargare il consenso del suo progetto politico. “Il tempo migliore dell’Italia – è la frase che Renzi ha ripetuto durante tutto il giorno in tutti gli interventi fatti in tutte le occasioni pubbliche in cui ha avuto l’occasione di parlare – non è il passato ma è il futuro e ora è arrivato il momento di prendersi qualche rischio”. I rischi per Renzi sono molti, forse sono infiniti. Ma dietro al sì al referendum non c’è solo una trasformazione istituzionale. C’è l’ultimo tassello di un progetto politico che riguarda il futuro di Renzi ma riguarda soprattutto il futuro della sinistra italiana. La vera sfida, in fondo, è tutta qui e anche Renzi lo sa: “Basta un sì per cambiare tutto. Basta un no per non cambiare nulla”.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.