L'ex sindaco di Roma, Ignazio Marino (foto LaPresse)

Babbeo, non reo

La vera truffa di Ignazio Marino è quella politica

Salvatore Merlo
La procura di Roma chiede tre anni per l'ex sindaco di Roma per truffa e peculato. La vicenda è quella degli scontrini. Ma la babbionaggine può mai essere un reato? Nell’epoca della purezza al potere le carceri sarebbero piene.

Adesso che la procura di Roma ha richiesto per lui una condanna per truffa e peculato ad ampio spettro punitivo, tre anni un mese e dieci giorni di reclusione, adesso che il comune amministrato da Virginia Raggi pretende da lui la spaventevole cifra di cinquecentomila euro per danni d’immagine, adesso insomma che lo spirito del tempo, cioè quel principio d’indignazione che chiama il consenso e sollecita la pubblica fustigazione investe Ignazio Marino con la potenza di un contrappasso biblico (chi di moralità ferisce…), ora che lo vediamo soffocare sempre di più nel sudario dei suoi stessi pasticci ideologici e delle sue furbizie, viene voglia di reagire con un minimo di fair play nei confronti di questo decaduto eroe della società civile, e dunque viene voglia di chiedersi: ma la babbionaggine può mai essere un reato? Nell’epoca della purezza al potere le carceri sarebbero piene.

 

La vicenda è quella degli scontrini, delle cene pagate (Marino è genovese) con la carta di credito del comune, e s’intreccia con una storia di contributi non pagati all’Inps (per un totale di sei mila euro), sai che truffa. E sin da subito, era ottobre del 2015, mentre emergevano dai resoconti di cronaca i dettagli del presunto peculato – che è cresta e ricotta, dunque un reato pecoreccio (peculato deriva da “pecus”, cioè da “pecora”, appunto) – Marino si attorcigliava sempre più, con un nodo di esterrefatto piacere, quasi con la perversa delizia di soccombere, in un comico rovo di omissioni e di balle. E allora ecco la foto di sua moglie a cena “che però non è mia moglie”, le spiegazioni che “non ho dato ieri perché le volevo dare oggi”, gli scontrini della carta di credito che “quelli non li firmavo io”, e poi l’agenda, e i suoi collaboratori “che probabilmente hanno sbagliato loro”, e l’ambasciatore del Vietnam che chiama per smentire di aver cenato con lui (“in effetti è vero non ho cenato con lui”. E allora lei con chi cenava? “Non me lo ricordo”). E insomma credendosi furbo, furbetto o furbacchione, mentre persino il Papa lo svelava, gabellando le bugie per ricordi, scambiando i ricordi per sogni, amanuense di se stesso, Marino si affidava alla retorica del fesso in buona fede, comica e micidiale figura, sparava dunque mezze frottole ai romani (ma evidentemente anche ai carabinieri) che storpiarono il suo nome in “Ignaro”, e poi in “Disgrazio”.

 

E più parlava, più si avvolgeva in un sudario di panzane. E ogni bugia di Marino ne richiamava una più grande, una più grossa, perché le bugie sono come le ciliegie: una tira l’altra, solo che poi ci si rimane incastrati, come nella tela del ragno, fino a trasformare una vicenda di “pecus” in un intrico giudiziario dalle gravissime conseguenze, una vicenda che adesso, con la richiesta di condanna a tre anni, diventa persino troppo carica di simbologia politica per poter essere ridotta alla tecnicalità giuridica. Le pene devono essere giuste, commisurate ai reati, non hanno funzioni didattiche o di moralizzazione. Tre anni. Cosa succederà allora quando la procura di Roma dovrà chiedere la condanna di Panzironi, Buzzi, o di uno qualsiasi degli inquisiti di Mafia Capitale?

 

Il 22 settembre è stato condannato a tre anni, per omicidio colposo, l’ingegnere romano che nel 2014 aveva strangolato e ucciso la sua amante, mentre pochi giorni fa sono stati dati tre anni di reclusione al nonno di Castelmassa condannato per molestie sessuali alla sua nipotina di sei anni. E a due anni – che sono ben un anno e un mese meno di quelli di Marino – è stato condannato tre giorni fa uno dei clienti coinvolti nel famoso scandalo delle squillo minorenni del quartiere Parioli. E insomma che questo ex sindaco trafficante di populismo, amico del popolo e nemico dei poteri forti, calamitoso benecomunista, vanitoso, spocchioso, arrogantello e moralista (moralizzato) abbia delle colpe è abbastanza ovvio. Ma il suo è un caso di truffa (o meglio di peculato) del mestiere di sindaco e di uomo politico. Quando fu sgamato, un anno fa, tentò in modo grottesco di rilanciarsi come tamburino dell’onestà: “Abbiamo sconfitto i fascisti sconfiggeremo anche i mafiosi”, disse. E questa reazione era già il cortocircuito tra l’indignazione e la coda di paglia, la resa dei conti della truffa politica che però può essere giudicata solo dagli elettori, dalla storia, mai da un tribunale.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.