Il mediocre d'eccellenza

Maurizio Crippa

Taglierò i costi inutili. Ci sono stati 70 milioni di euro di consulenze probabilmente in gran parte inutili”. Chissà perché la lingua mediocre dell’eccellenza autocertificata batte sempre sul dente che duole, i soldi degli altri. Ma poiché è sempre la lingua che si sceglie il dente, così come le parole si scelgono i lapsus, candidarsi per fare il sindaco di Roma con uno slogan  che è tutto un programma, “Roma è vita”, non è proprio una scelta scaramantica per un fan del testamento biologico. Conoscendo il disincanto dei romani, poi.

    Taglierò i costi inutili. Ci sono stati 70 milioni di euro di consulenze probabilmente in gran parte inutili”. Chissà perché la lingua mediocre dell’eccellenza autocertificata batte sempre sul dente che duole, i soldi degli altri. Ma poiché è sempre la lingua che si sceglie il dente, così come le parole si scelgono i lapsus, candidarsi per fare il sindaco di Roma con uno slogan  che è tutto un programma, “Roma è vita”, non è proprio una scelta scaramantica per un fan del testamento biologico. Conoscendo il disincanto dei romani, poi. Oltretutto con quella faccia un po’ così, la guancia un po’ cascante, il capello corto che non aiuta a dissimulare la sessantina già all’orizzonte, l’occhialetto, più che da luminare, à la Gianfranco Fini. Roma è vita, ma non proprio una botta di vita.

    Una botta di noia, piuttosto, come l’altra sera a “Piazza Pulita”, la corrida dei candidati sindaco allo sbaraglio organizzata da Corrado Formigli. C’era Alfio Marchini, che sembra nato per stare in favore di telecamere. C’era il grillino De Vito, che sembra un grillino, e s’è detto tutto. C’era Gianni Alemanno, il campione in carica, che sembra nato per essere malmenato dalle telecamere. E poi c’era Ignazio Marino, che vorrebbe essere nato per emanare sopra il volgo la superiorità di Scienza e Fede, ma alla prova dei fatti aveva la solita aria del professorino saccente, del medico di base che ti mette a dieta anche se hai gli esami perfetti: così, tanto per rimarcare che il medico è lui. Buchi di bilancio? Bisogna “tirare una riga blu sugli F-35”. Traffico al collasso? “Lo dico da medico: ci vuole la cura del ferro”. Una ricetta per Roma? “Merito e trasparenza”.

    Per capirci. Quando un luminare bon vivant come Umberto Veronesi, con i suoi lunghi anni portati alla grande come uno Sean Connery dell’oncologia, ti spiega che tutti potremo campare cent’anni cibandoci di pura scienza e poi, quando saremo stanchi di quella gran puttana che è la vita, un beverone e via, viva “il fondamentale diritto di morire”, il dubbio può anche venirti. E se avesse ragione lui? Invece di finire, per colpa di questa inestirpabile tigna di credere nell’Aldilà, come tanti vegetali curati dalle suore? Ma quando invece vedi Ignazio Marino, triste come un curato scavato dal Dubbio, quando gli senti dire che “il caso di Terry Schiavo, per quanto drammatico, non va confuso con l’eutanasia”, ti viene ragionevolmente da chiederti dove sia mai questa eccellenza, questa superiorità. Questo portento di scienziato. E quando gli senti dire che l’Imu “l’ha introdotta il governo Berlusconi”, o che “se Roma è il centro del mondo allora a Roma devono esserci tutte le opportunità del mondo”, ti domandi se fosse poi così necessario il trapianto di tanta scienza nel corpaccione stolido della politica. Così adesso che si è candidato a sindaco di Roma, con una campagna moscia e grigia che sta facendo paura ai maggiorenti del Pd, che a causa di candidati mosci e grigi ultimamente hanno già sofferto le pene dell’inferno, viene da pensare che in fondo sia il giusto punto d’approdo di una carriera tutta nuotata nel mare mitologico dell’eccellenza, ma sulla linea di galleggiamento della mediocrità.

    In politica, certo. Perché oggi come oggi Ignazio Marino è un politico professionale. Un percorso esemplare, noiosamente esemplare, dentro a una certa Italia pretenziosa. Il solito guadagnarsi un ruolo in politica pagandolo con la moneta falsa della primazia nella società civile. Sono un capace imprenditore, uno scienziato internazionale, facevo la canoista olimpica.

    Così, come fosse un opaco destino manifesto, dopo non lunghissima carriera medica tra la Pennsylvania e Palermo, Marino ha scelto di percorrere il cursus honorum basico dell’aspirante politico da Seconda Repubblica. Al servizio di Ippocrate ha detto addio, con qualche frettolosa malagrazia (vedremo), ha scritto un libro di pensosi dubbi religiosi e scientifici, Credere e curare, capziosamente problematico come può esserlo la soluzione del cubo di Rubik: “Nel momento in cui il medico non si confronta esclusivamente con le proprie convinzioni e con l’evidenza scientifica, ma anche con la propria fede, la situazione si complica”; “da medico e da uomo di scienza sinceramente non posso negare il fascino delle prospettive legate alla ricerca sulle cellule staminali”. Una cavalcata in cento pagine sulle dolci colline spacciate per perigliose montagne russe dell’etica e della medicina, disseminate di se, ma, però, forse e chissà in mezzo a cui lo scienziato e credente Marino non riesce a prendere una posizione netta che sia una, nemmeno sull’aborto. Al massimo riporta, diligente su ogni argomento, che “la posizione ufficiale della chiesa in questi casi è…”. Per il resto è solo “conscientia perplexa”, quel meraviglioso crogiuolo del dubbio adatto per accreditarsi nel giro buono di quelli che credono in Dio, ma la pensano come la Scienza. E perfetto, dopo il battesimo nella politica d’alta gamma con la fondazione di Massimo D’Alema, ItalianiEuropei, a candidarsi (2006) come indipendente nelle liste dei Democratici di sinistra al Senato. Pronto per chiara fama alla presidenza della commissione Igiene e sanità. Il giro dopo, sempre a Palazzo Madama, guida la commissione d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale (sempre per chiara fama, of course), ma più che altro si batte contro la liberticida legge sul testamento biologico che il centrodestra a (dis)trazione bioetica stava provando a montare, come una maionese destinata a impazzire. Nel 2009 Marino è pronto per candidarsi alle primarie del Pd, facendo un discreto fiasco, nonostante l’endorsement di Beppino Englaro e il giro dei professorini che l’aveva promosso ad angelo vendicatore della malapolitica. Roberta de Monticelli, vestale della libera e spericolata e trasparente  Università del San Raffaele e firmataria del manifesto “Ripuliamo il Pd dalla nomenclatura”, vaticinò: “Ho sentito nelle parole, e soprattutto nella figura di Ignazio Marino una nuova vera speranza. In primo luogo per le sue due parole chiave, limpide e modeste – Laicità e Meriti”.  E’ il percorso cui si sottopongono i professionisti, smaniosi o bisognosi di cambiare carriera e vita. Si getta sul piatto dell’opinione pubblica il fascino tormentato del giuramento di Ippocrate, il camice e la mascherina del chirurgo-star internazionale, lucrando di riflesso sulla figaggine dei Medici in prima linea. In una società ossessionata dalla salute, il medico è un sacerdote. Se poi è di successo, ha un bel gruzzolo di credibilità da investire nella nuova carriera. ER de’ noantri.

    Passaggio repentino. Nel 2002, l’addio del “re dei trapianti” all’Ismett di Palermo, l’Istituto mediterraneo per i trapianti e terapie ad alta specializzazione, ha però qualcosa di davvero spettacolare. “Qui non si può lavorare”, dichiara.  Colpa dei “poteri siciliani” che lo costringono ad andarsene. Sembrava Achille che lascia sdegnoso il campo. Per Repubblica “quel tratto di penna sotto la lettera di dimissioni è un sipario di ferro che si abbatte con assordante clangore sui sogni di cambiamento, di superamento del sottosviluppo, di avvicinamento all’Europa. Marino ha scelto di andarsene senza alzare la voce. Del resto, gridare non spetta a lui. Non è un politico ma un chirurgo, e continuerà a farlo lontano dalla Sicilia, maledicendola e amandola come tutti i siciliani della diaspora”. Leoluca Orlando, allora sindaco autunnale di Palermo, si amareggiò per la “fuga dei cervelli italiani”.

    C’è voluto tempo perché qualcuno potesse capire come era andata davvero. Fu uno scooppettino del Foglio. Risultò che dall’Ismett di Palermo, collegato all’Università di Pittsburgh (UPMC) dove lavorava e che parimenti abbandonava, si era volontariamente dimesso con una sorta di procedura concordata per sanare una mediocre storia di piccioli, direbbe la Boccassini, un dissapore sui rimborsi spese, nella miglior tradizione della furbizia orientale, quella senza pretese di eccellenza dei nostri politici, dei nostri medici del rione sanità, dei nostri piccoli commis d’ètat. Ha vinto una capziosa azione civile: non fu cacciato (anche se ciò non fu mai detto), si dimise per “importanti ragioni di carattere personale”. Così adesso che qualcuno ha ritirato fuori quella vecchia storia, può dire con il rinnovato sdegno della beghina importunata sull’autobus che “circa il mio rapporto con l’Ismett” si pubblicano “notizie false costruite a solo scopo diffamatorio”. Sta di fatto però che dal curriculum con cui si presenta ai cittadini romani sul suo sito elettorale, il lavoro d’eccellenza a Pittsburgh è finito un po’ mascherato. “Ho studiato prima in Inghilterra, a Cambridge, e poi negli Usa presso la University of Pittsburgh, centro d’eccellenza mondiale per i trapianti”. E nel 1993 è diventato “co-direttore” di un non meglio localizzato, nel curriculum, “Centro Trapianti del Veterans Affairs Medical Center, l’unico dipartimento per trapianti di fegato appartenente al governo degli Stati Uniti”. Che poi sarebbe lo stesso centro della stessa UPMC, collegata all’Ismett, da cui si era contestualmente dimesso. Si chiude una carriera chirurgica d’eccellenza. In sospetto di cresta o di sciatteria.

    La politica come punto d’approdo. Si parte sempre tutti con grandi ambizioni moralizzatrici, signora mia. E si finisce sempre con una lista della spesa che non torna, o a fare un po’ di demagogia. Come nei goffi tweet – la velocità smart e rock dei 140 caratteri non è evidentemente il suo regno – con cui dissemina la campagna elettorale: “Un sindaco non deve pensare ai nastri da tagliare nei successivi 6 mesi ma alla visione del mondo dei successivi 25 anni”. “Con me il Campidoglio sarà una casa di vetro. Bilanci e curricula on line”. “Sono al Policlinico Umberto I. Mi sto informando sulle condizioni dei carabinieri feriti andando negli ospedali dove sono ricoverati”.

    Fa uno strano effetto l’eccellenza, quando si scontra con la politica quotidiana. Sarà che non siamo abituati, non abbiamo mai avuto una vera élite. I premier inglesi studiano a Oxford o Cambridge. Obama, prima di diventare Obama si è ben lucidato alla Harvard Law School, i Clinton hanno iniziato la loro scalata al mondo degli ottimati, cui per nascita non erano ammessi, sudandosela a Yale. “Chirurgo d’eccellenza”, che ha “studiato e lavorato in una università d’eccellenza”. “Nel caso di Ignazio Marino non si può parlare di un professionista ‘prestato’ alla politica… Conoscendo la serietà, la dedizione e il valore scientifico di Ignazio Marino non abbiamo dubbi che egli applicherà alla politica un metodo di lavoro e un impegno mutuato dalla sua esperienza di chirurgo e di ricercatore”, come disse nel 2006 Franco Cuccurullo, presidente del Consiglio superiore della sanità. La retorica dell’eccellenza, specie in Italia, ha sempre una patina mediocre. Bisogna esportare le eccellenze, dal caciocavallo di Adria al cachemire al cinema d’animazione ai giovani laureati. Creare eccellenze, dare spazio alle eccellenze. Il governo Monti è stata la prima prova da molti anni di cooptazione delle “eccellenze” in politica. Se il risultato è stato inferiore a quanto sperato, un po’ della colpa sta proprio nel fatto che le eccellenze specifiche trapiantate altrove non funzionano, o a volte non sono tali. Così il candidato Marino che parla solo di merito, poi finisce per dire banalità impolitiche come “basta poco per cambiare le cose: passiamo dalla cultura dell’Io al pronome Noi”, manco fosse Papa Francesco.

    In Italia l’eccellenza è spesso l’alibi di un’autopromozione. Si mette sulla bancarella la merce che si ha. Si diventa élite per autocertificazione, per accorto posizionamento mediatico. Anche il piccolo cabotaggio della storia politica di Ignazio Marino funziona così. Si è occupato di sanità per diritto, e per estensione di diritti civili. E la faccenda delle dimissioni smerciate come un j’accuse è servita come un lasciapassare. Il traffico d’eccellenza è un classico della recente politica italiana, ma il caso di Marino passa però anche da un altro e più ardito sentiero. L’allure del pensoso medico filosofo credente che approccia alla politica perché l’esperienza professionale, tutta quella sofferenza che si vede negli ospedali, ha bisogno di altre risposte, di altro impegno. E’ il crinale di morte e vita che lo spinge, lo sbalza, gli impone l’agone pubblico. Dalla medicina all’ammaestramento delle folle.

    Nell’Italia degli ultimi due decenni, marcata da un resistente eccezionalismo cattolico che ha mantenuto il punto sui grandi temi della vita e della morte, prendere posizione contro è un biglietto da visita importante. Se poi puoi esibire un patentino di cattolico “ma non bigotto”, credente ma non oscurantista, il gioco è fatto. E’ così che Ignazio Marino è rimbalzato come un trapezista da una carriera medica in discesa verso quella politica, prendendo lo slancio sul tappeto elastico della fede. Introdotto nell’eletta schiera dei cattolici tormentati, adulti. Don Verzé non l’ha mai bazzicato, non per dissenso ideale ma per una ben esibita schifiltosità veniale. Ma Martini… Ah, Martini sì.

    Si comincia quando nel 2005, prodromico alla discesa in campo, scrive per Einaudi il suo librino di riflessioni, Credere e curare. Ma è l’incontro con Carlo Maria Martini il punto di svolta. Sulla scena pubblica italiana degli ultimi trent’anni, il compianto cardinale di Milano ha sempre fatto la differenza. Martini, per i media laici, possedeva qualcosa come il Lubitsch touch, quella levità pensosa capace di trasformare in affascinanti riflessioni per laici ciò che in bocca ad altri prelati suonano squallide fissazioni oscurantiste. E chiunque avesse la fortuna di entrare in dialogo con lui, fossero Eugenio Scalfari o Vito Mancuso, carezzato dalla sua mano angelica, veniva trasformato seduta stante in anima in cerca, in santo nascosto, in ermeneuta della teologia. Ignazio Marino ha vissuto lo stesso miracolo iniziatico. Martini lesse il suo libro, ne nacque una conversazione (sull’Espresso) basata sull’apprezzamento cardinalizio per “il suo equilibrio nel trattare problemi di frontiera, là dove le esigenze mediche si incontrano e talora sembrano scontrarsi con le esigenze etiche”. Equilibrismi sublimi del tipo: “Mi sono interrogato decine di volte dagli anni Ottanta a oggi su quali tecnologie sia lecito utilizzare”. Conversazione divenuta famosa soprattutto perché i due sembravano aver trovato un punto d’incontro, in tema di manipolazione della vita nascente, sul neutro territorio dell’ovocita. A monsignor Elio Sgreccia, presidente della pontificia Accademia per la vita, che forse avrebbe preferito evitare, toccò intervenire per specificare che “l’ovocita, vale a dire, l’unione del cromosoma femminile e del cromosoma maschile, contiene dentro sé due pro nuclei, ed è un ovulo fecondato, nel quale il processo di fecondazione è già iniziato”. Il dialogo tra Martini e Marino è poi diventato un libro, Credere e conoscere, in cui si parla di tutto, di embrioni e di eutanasia, fino all’immancabile (e chissà cosa interessa a un chirurgo ammogliato) celibato dei preti. Ma tant’è, la trasformazione di Ignazio Marino da star della medicina che ha attaccato i bisturi al chiodo in promessa della politica eticamente sensibile era avvenuta. Il resto, è un problema che sbroglierà il Pd. Con il contributo degli elettori di Roma.

    • Maurizio Crippa
    • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

      E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"