Virginia Raggi alla festa del Fatto Quotidiano

C'è un tabù culturale nascosto dietro i pasticci della giunta Raggi

Luciano Capone
In che senso la retorica grillina è destinata a peggiorare il grande problema di Roma: l’inefficienza.

Roma. In cinque anni di amministrazione Alemanno, dal 2008 al 2013, sono stati cambiati 3 assessori al Bilancio, uno ogni 20 mesi. Durante la gestione Marino gli assessori al Bilancio del comune di Roma sono stati sempre tre, ma in due anni e mezzo, così la durata media si è dimezzata, uno ogni 10 mesi. Marcello Minenna nella giunta Raggi invece è durato appena due mesi. E’ evidente che i problemi politici ed economici della capitale siano lì, nei conti, com’è evidente, dalle dimissioni del super assessore al bilancio, patrimonio e partecipate, che non basta sostituire i “buoni” ai “cattivi” per riparare una macchina che non funziona. La retorica dell’onestà non porta lontano, anzi porta a sbattere se distoglie dalle questioni fondamentali. Il comune di Roma ha un debito di 12 miliardi di euro affidato alla gestione commissariale, che dopo i vari decreti “salva Roma” viene smaltito con 300 milioni versati ogni anno dai contribuenti italiani e 200 dai romani. Il problema non è tanto il pregresso, che è in mano al commissario, ma il disavanzo strutturale di 550 milioni che continua ad essere prodotto, prevalentemente dalle società partecipate. Ma di questo la Raggi e i 5 stelle non si sono affatto occupati, anzi hanno preferito lisciare il pelo ai sindacati e ai 31 mila dipendenti delle municipalizzate, dicendo che il problema erano la “casta” e la “mafia”.

 

In campagna elettorale e nelle linee programmatiche Virginia Raggi ha dichiarato l’intenzione di voler rinegoziare il debito pregresso con la Cassa depositi e prestiti, ma non si è espressa sulla disavanzo e sulla ristrutturazione delle aziende in deficit in mano al comune. In pratica la soluzione indicata è quella di smettere di pagare il debito, quando la cosa più importante da fare sarebbe smettere di produrlo. Naturalmente la prima strada non ha i costi elettorali della seconda e su questo pesa l’azzardo morale a cui sono stati abituati i cittadini e gli amministratori della capitale con i continui salvataggi da parte dello stato centrale.

 

Ma il problema è che i continui salva Roma, oltre a pesare sui contribuenti italiani, non hanno salvato i romani, che pagano tra addizionali comunali e regionali le tasse più alte d’Italia, ma hanno salvato le aziende municipali e sussidiato le loro inefficienze. Il comune di Roma ha 60 mila dipendenti, di cui circa la metà nelle municipalizzate (la Nike, multinazionale dell’abbigliamento sportivo, ne ha 44 mila) e partecipazioni in decine e decine di società che c’entrano poco con il servizio pubblico e che macinano debiti. Il comune riesce a perdere milioni di euro persino con le farmacie, che non si capisce perché non vengano vendute a chi sappia gestirle, ma i buchi neri in cui si smaterializzano le risorse sono l’Atac (trasporti) e l’Ama (rifiuti). L’Atac, con i suoi 12 mila dipendenti, ha sul groppone 1,3 miliardi di debiti e continua a produrne a centinaia ogni anno. In sei anni ha perso 1,2 miliardi di euro, al netto dei 4,2 miliardi di sussidi (circa 700 milioni l’anno) versati principalmente del comune e che rappresentano circa il 70 per cento del fatturato dell’azienda. Altre centinaia di milioni sono stati persi dall’Ama, che attualmente ha un debito di circa 600 milioni. La cosa grave di questi carrozzoni è che sono così disastrati, che non possono essere neanche parzialmente privatizzati: “Neppure un emiro ubriaco investirebbe nell’Atac”, ebbe a dire l’ex sindaco Rutelli. Allora non resterebbe che farle fallire o ristrutturarle, cose di cui l’amministrazione pentastellata non ha minimamente intenzione, sia per i tic benecomunisti ampiamente esposti in campagna elettorale, sia perché non sembrano avere coscienza del problema. E se pure fosse non saprebbero da dove iniziare a mettere le mani nella mastodontica macchina capitolina.

 

L’ex assessore Minenna viene dalla Consob e ha contezza di come va il mondo e la sua nomina, sponsorizzata dal vertice del partito, poteva essere una soluzione per separare la gestione tecnico-finanziaria dell’amministrazione da quella più politica. In pratica Minenna, con il magistrato Carla Raineri a lui vicina e i manager da lui nominati nelle partecipate, si sarebbe occupato delle cose più importanti, mentre alla Raggi e ai politici sarebbero rimasti i pannolini di quartiere e la lotta biocentrica all’antropocentrismo specista. La cosa non ha funzionato, il Movimento e il Raggio magico non si sono dimostrati capaci di integrare l’apporto delle competenze esterne. Ma adesso che i tecnici sono stati respinti e scaricati in questo modo, quale altro professionista ci metterà la faccia? Forse il peggio non è alle spalle.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali