Il ministro Marianna Madia (foto LaPresse)

Una fiammella nella Pubblica amministrazione

Redazione
I decreti attuativi della riforma Madia: buone notizie e una sbavatura. Non siamo ai meccanismi delle aziende private (dove retribuzioni e rischio sono spesso superiori) ma è quanto più si avvicini agli standard pubblici del nord Europa.

Pur arrivata allo scadere della proroga (28 agosto), e con la “riserva” che tiene in carica fino al termine del loro mandato gli attuali dirigenti generali, la riforma della dirigenza pubblica approvata dal governo giovedì 25 può rivelarsi, se il Parlamento non cederà alle lobby dell’alta burocrazia che hanno frenato il decreto, una delle migliori del governo guidato da Matteo Renzi, con benefici sia economici sia soprattutto di efficienza non tanto per questo esecutivo – c’è già chi inevitabilmente grida al regime – quanto per il futuro. Dal Dopoguerra le caratteristiche della burocrazia pubblica italiana sono state l’inamovibilità, le carriere e gli stipendi avulsi da valutazioni di merito che non fossero quelle decise dai burocrati stessi. Il che come risulta da tutte le ricerche internazionali nonché dalle lamentele costanti di organismi come Corte dei Conti e Anac (formate anch’esse da dirigenti pubblici) ha frenato lo sviluppo dell’Italia ai vari livelli, dalle infrastrutture all’export all’avvio di semplici attività.

 

Con la riforma si passa a incarichi a termine, quattro anni prorogabili di due, e a quattro ruoli unici per stato, regioni, enti locali, authority dai quali si sceglieranno i funzionari che dopo tre anni, previa valutazione, potranno diventare dirigenti, sempre a termine. Scaduto il quale si rientra in elenco in attesa di nuovo incarico; perdendo la parte accessoria dello stipendio (incide dal 40 al 70 per cento del totale) e subendo una decurtazione annua di un decimo della paga base. Se dopo 6 anni la chiamata non arriva si torna funzionari, o in caso di rifiuto si può essere licenziati. I dirigenti di prima fascia, dopo molte resistenze, hanno strappato una sorta di “riserva”, pari al 30 per cento dei posti che saranno messi a bando. Una concessione di cui si vedranno gli effetti, purtroppo. Comunque saranno cruciali l’efficienza e l’imparzialità delle commissioni per la dirigenza, nuovi organi di esperti indipendenti che valuteranno le candidature in base a 50 parametri oggettivi.

 

Non siamo ai meccanismi delle aziende private (dove retribuzioni e rischio sono spesso superiori) ma è quanto più si avvicini agli standard pubblici del nord Europa. Le resistenze dei 36.041 dirigenti di stato, regioni, agenzie, sanità e quant’altro sono state durissime. Solo a Palazzo Chigi i dirigenti sono 315, al ministero dell’Economia 631, tra i quali i potenti “apicali”, dai capi di gabinetto in giù, che per decenni hanno velocizzato o frenato leggi e regolamenti gestendoli spesso come cosa propria, utilizzando le porte girevoli dei trasferimenti da un ministero all’altro, trovando sponde nei Tar e nel Consiglio di stato popolati da colleghi di carriere e cordate. Restano come sempre fuori la magistratura, cittadella intoccabile, e la scuola, dove continua a valere il principio del “nessuno mi può giudicare”. Ma una fiammella si è accesa.