Una riunione dell'Assemblea costituente

I Padri costituenti più riformisti dei “costituzionalisti ansiogeni”. Se ne parla a Roma

Marianna Rizzini
Costituzionalisti ed esperti si incontrano su un punto: i membri dell'Assemblea costituente avevano previsto che il bicameralismo perfetto avrebbe creato qualche problema.

Roma. Le riforme raccontate alla rovescia, a partire dal momento di più insospettabile potenziale riformista: quello in cui la Carta stessa ha preso forma, durante le sedute dell’Assemblea costituente. E poi l’opposizione ideologica alle riforme vista in flashback, nelle sue radici politiche e non giuridiche, e nelle pigrizie e automatismi che dagli anni Sessanta e Settanta sono arrivati a strascico fino a oggi. Parte da questi due rovesciamenti di prospettiva la riflessione promossa dall’associazione “Il Nuovo Stato”, centro di studi e dibattiti nato qualche mese fa (su impulso, tra gli altri, di Giorgio Mosci, Raffaella Della Bianca, Mario Barbi, Antonio Pilati, Lodovico Festa, Gian Michele Roberti e Giovanni Battista Pittaluga) con l’idea che il superamento del bicameralismo perfetto non sia sufficiente, e che anzi sia “al massimo una premessa a un sempre più necessario processo di organiche riforme istituzionali, l’unica via per dare una vera prospettiva all’Italia”.

 

E giovedì, a Roma, “Il Nuovo Stato” ha invitato giuristi e storici (Giovanni Guzzetta, Giovanni Orsina, Vincenzo Zeno-Zencovich, Stefano Ceccanti, Luca Antonini, Carlo Fusaro, Marco Gervasoni) a interloquire con studiosi e personalità impegnate politicamente (tra cui Luciano Violante e Stefano Caldoro) sulla “Costituzione più bella del mondo”, titolo che già di per sé, nell’intenzione degli organizzatori, vuole essere arma di neutralizzazione di un riflesso condizionato: la “Costituzione più bella del mondo”, quella sempre citata come baluardo intangibile di democrazia e mitizzata nelle letture televisive teatralizzate di Roberto Benigni, non era proprio così perfetta agli occhi dei suoi demiurghi che, come ha spiegato Carlo Fusaro, ordinario di Diritto elettorale e parlamentare a Firenze, già durante le sedute della Costituente si erano resi conto che il bicameralismo perfetto e il parlamentarismo a misura di partito, in prospettiva, avrebbero potuto creare più di un problema. Consapevoli dei punti deboli su Senato e forma di governo, i Padri costituenti avevano poi scelto, per ragioni legate al contesto storico-politico, di non modificare gli strumenti di depotenziamento dell’esecutivo. La resistenza al riformismo per come la conosciamo oggi, dice sempre Fusaro, nasce invece alla fine degli anni Sessanta, quando prende piede l’idea che i fautori della riforma costituzionale fossero animati dall’intenzione di impedire o edulcorare l’eventuale vittoria politica delle sinistre in fase espansiva.

 

[**Video_box_2**]E i protagonisti di quel tipo di “costituzionalismo ansiogeno” e conservatore, nota Fusaro, sono in molti casi gli stessi che oggi firmano appelli anti riforme, Gustavo Zagrebelsky e Valerio Onida in testa. Anche “il rifiuto del capo”, dice lo storico Marco Gervasoni, era presente nelle riflessioni della Costituente, spesso come retaggio della cultura liberale dell’Italia pre-guerre e pre-fascismo, spesso figlio del contesto post-Resistenza (non abbiamo avuto un De Gaulle) o delle esigenze dei partiti che dalla Resistenza erano usciti (Costituzione scritta “ex post” dai partiti a loro immagine, dice Orsina, mentre Guzzetta si sofferma sul metodo seguito in fase costituente e sull’esigenza di “non pregiudicare futuri sviluppi” e di “raggiungere compromessi” poi rivelatisi non sempre felici). Ceccanti invita invece a rileggere i dibattiti dei Padri costituenti nelle tre occasioni in cui si pose il problema della fiducia al governo: si scoprirà, dice, che proprio in quei momenti si afferma l’idea molto togliattiana del “o siamo tutti insieme al governo o l’organo centrale dev’essere il Parlamento”, ed è in quegli snodi che si nasconde la rinuncia a dotarsi di uno strumento di sfiducia costruttiva. Ora, dice Ceccanti, non stiamo facendo altro che tornare inconsapevolmente alla primavera del 1947, a finire l’opera che i Padri costituenti hanno interrotto per via della Guerra fredda.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.