(foto Ansa)

Piccola Posta

Navalny sapeva quello che faceva e così le persone che sono andate al suo funerale

Adriano Sofri

Il dissidente morto in Siberia era conscio dei rischi che correva tornando in Russia. La folla che sfilato per le strade di Mosca per dirgli addio dimostra che il suo esempio è entrato nei cuori rassegnati dei russi

Nei giorni scorsi seguivo con una strana ansia le diverse opinioni, alcune dolorosamente sentite altre supponenti, sulla decisione di Alexei Navalny di tornare, ospite libero e ammirato com’era in Germania e nel resto d’Europa, nella Russia che era la sua terra e la Cosa Nostra del suo avvelenatore mancato. Qualcuno pensa che Navalny avesse troppo sopravvalutato il proprio seguito in patria e la tutela straniera, e se ne sentisse protetto: Putin non avrebbe osato ripetere il suo crimine. Non credo se non in minima parte a una simile ingenuità o a una simile presunzione. Non penso che Navalny fosse perdutamente dedito al martirio, e non confidasse al contrario in una propria forza. Nel gesto dell’inerme che si consegna alla balìa manesca del suo nemico c’è una fiducia nell’intimidazione della nonviolenza. Deve, può, aver considerato che la propria estrema debolezza fosse il suo scudo. Ma non può esserne stato sicuro: conosceva il suo nemico, e ha fatto un suo calcolo del rapporto fra il costo – dalla galera dura fino alla vita – e il ricavo: un esempio che si sarebbe inciso nei cuori rassegnati o induriti dei russi. Chi pensa che avesse presunto troppo di sé e non avesse messo nel conto la determinazione assassina di Putin e dei suoi squadristi, non può che considerarlo uno sconfitto, e così indulgere alla propria stessa sconfitta per abbandono. Io credo che Navalny abbia saputo quello che faceva. E che la sua sfida e la sua ironia lo dimostrassero. Stava alzando il proprio prezzo.

Ieri, nella periferia moscovita in cui aveva abitato, è venuta una risposta. Che fossero centinaia, o mille, o duemila, o più, i cittadini russi che si sono messi in fila per il suo funerale, tutte, tutti, dal primo all’ultimo, sapevano perfettamente che cosa facevano, a quale rischio. Hanno scandito il suo nome, si sono mostrati alle telecamere, hanno esibito i documenti, si sono fatti intervistare – soprattutto le donne. Una sola si è mostrata magnificamente sicura di una personale immunità. Alla domanda rivolta a tutte, “Ha paura?”, ha risposto quasi ridendo: “Io ho un’età in cui non si ha più paura di niente”.

Un autore di teatro, uno all’altezza dei tragici greci che tanto sono stati evocati nei giorni scorsi di fronte alle vicissitudini del corpo rubato e occultato, della resistenza intrepida della madre, della consegna della spoglia alla condizione della sepoltura segreta, del rifiuto e della denuncia e della maledizione della madre e delle sue accompagnatrici, infine della resa dell’autorità al funerale e alla cerimonia in una chiesa per ciò stesso invisa ai suoi capi, avrà il suo memorabile materiale. Ai nostri giorni, con le migliori intenzioni – c’è una libertà da noi – si è tornati a rivendicare la ragione di Creonte contro quella di Antigone, questione mai conclusa. Antigone ha segnato un altro gran punto. Navalny sapeva quello che faceva. Le migliaia di fedeli alla sua memoria e a se stessi che oggi – anche grazie alle televisioni internazionali, sia pure bendate, e ai diplomatici di paesi liberi – l’hanno salutato, lo sapevano a loro volta, e l’hanno fatto sapere ai tanti che rimpiangono o rimpiangeranno di non esserci stati.

Il 30 maggio 1924, nel Parlamento italiano, il deputato Giacomo Matteotti pronunciò, più volte interrotto, un suo famoso discorso. Alla fine, disse ai colleghi: “E ora potete preparare il mio elogio funebre”. Dieci giorni dopo era morto ammazzato. Sapeva che cosa faceva.

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