(foto Ansa)

Piccola Posta

Un documentario su Mariupol per mettersi la mano sul petto con gli occhi lucidi

Adriano Sofri

I venti terribili giorni della luminosa città ucraina. Le ambulanze caricate sotto il fuoco, i soccorsi chirurgici eseguiti senza luce né acqua 

Martedì dunque, alla Camera, nell’aula dei gruppi parlamentari, è stato proiettato il documentario “20 giorni a Mariupol”. Lo girò, per l’Ap, un gruppo di giornalisti ucraini guidati da Mstyslav Chernov, con Evgeniy Maloletka, Vasilisa Stepanenko e Lori Hinnant, nella città assediata. Mariupol, la storica luminosa città sul Mar d’Azov, aveva ancora al momento dell’invasione russa più di 400 mila abitanti. Della difesa, durata fino al 20 maggio del 2022, restano probabilmente nella memoria degli spettatori lontani le impressioni dei bombardamenti indiscriminati, della distruzione accanita del teatro, del bombardamento dell’ospedale di maternità, della resistenza strenua del reggimento Azov fino all’ordine di resa. Poi tante altre visioni analoghe si sono sovrapposte, in quel centro d’Europa e nel vicino oriente, con l’effetto triste dell’assuefazione e della comparazione. Così, di fronte alle prime immagini, cruente, impietose – pietose cioè  – sulle quali la Camera indugia, il sangue, la disperazione degli spogliati di tutto, le ambulanze caricate sotto il fuoco, i soccorsi chirurgici eseguiti senza luce né acqua né strumenti, non si può fare a meno di vedere in controluce la scena quotidiana di Gaza, e sentire un disagio, o quasi una colpa, di fronte a una domanda di dolore e compassione che sembra emulata o superata dall’altra.

L’impressione dura poco del resto, e in luogo della suggestione di una gara di distruzione e sofferenza interviene caso mai la pena per una affinità. Putin non ebbe un 7 ottobre a motivare la sua aggressione, ma una volta scatenate le bombe le differenze di vesti gesti e lingue cedono il passo alle somiglianze.I 20 giorni che scandiscono il documentario sono simbolicamente estratti dai poco più di due mesi di durata dell’assedio, al termine dei quali il conto ufficiale delle vittime di Mariupol ammontò a 25 mila morti, superato di molto da quello reale. E anche chi, come me, rifugge dalla pretestuosità o dall’anestesia delle comparazioni, i miei morti contro i tuoi, scopre di aver rimosso quella schiacciante memoria.

Mi auguro che il documentario abbia una larga diffusione. A presentarlo c’erano il sindaco legittimo di Mariupol, Vadym Boychenko, e Julija Pajevs’ka, l’attivista, atleta, paramedica ucraina, imprigionata dai militari russi e rilasciata dopo tre mesi nel giugno del 2022. Rischiò la vita a Mariupol nel volontariato delle ambulanze e nelle riprese delle atrocità, consegnate in tempo ai giornalisti e fortunosamente trafugate. Il Parlamento europeo le ha assegnato nel 2022 il Premio Sacharov per la libertà di pensiero. Si è portata a Roma un sassolino, è prezioso, ha detto, perché è della spiaggia di Mariupol, e perché somiglia ai sassolini di qualunque altra spiaggia dell’Italia e del mondo.

Le parlamentari ospiti, Lia Quartapelle, Anna Ascani, coi loro colleghi Andrea Casu e Filippo Sensi, hanno spiegato di aver voluto rispondere, in un luogo così solenne, alle moltiplicate iniziative di propaganda putinista convinte di trovare un terreno fertile nella famosa stanchezza degli italiani per una guerra nella quale altri resistono, combattono e muoiono. Mariupol ebbe un posto privilegiato nella falsificazione russa, e il documentario la smaschera puntigliosamente e coraggiosamente.

L’aula dei gruppi non è piccola ed era gremita. Quando tutto era finito, proiezione e ringraziamenti e saluti, una buona parte del pubblico ha intonato l’inno ucraino, prima quasi timidamente poi sicuramente, ma conservandogli un accento nostalgico più che marziale. Del resto la nostalgia nacque così, sapete, per risarcire valorosi combattenti del loro desiderio di casa, e di libertà. Lo so, la retorica da noi ha fatto il suo tempo, e tenere la mano sul cuore, se non è per le telecamere sportive, stride con la nostra compiaciuta ironia. Ma quell’aria ucraina mista di sofisticati droni casalinghi e di primavera dei popoli ottocentesca merita un gran rispetto. C’era accanto a me una signora, non giovane, molto elegante, gli occhi bagnati. Siccome la guardavo, ha detto: “Ho pianto!” – come una rivendicazione.

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