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Piccola posta

Ma paragonare il pogrom del 7 ottobre e la Shoah non aiuta a far chiarezza

Adriano Sofri

Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz. Sull'esigenza e l'importanza della memoria, soprattutto oggi

La domanda è antica, ed è agli sgoccioli: chi custodirà la memoria quando l’ultima, l’ultimo testimone se ne sarà andato? E’ soprattutto la loro domanda. Giuliana Tedeschi è morta nel 2010, aveva compiuto 96 anni. Liliana Segre ha 93 anni. Goti Bauer ne avrà 100 a luglio. E’ come se volessero, oltre che vivere, dare agli altri, alle altre, il tempo di sapere, capire, ricordare. E di voler loro bene. Liliana Segre specialmente, senatrice “a vita” appunto, deve aver sentito, sentire, quanti e quanto le vogliano bene.
Le donne che ho nominato sono le protagoniste di un libro di “conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz” curato da Daniela Padoan, “Come una rana d’inverno”, uscito nel 2004 per Bompiani, e ripubblicato oggi, vent’anni dopo, da Einaudi. Padoan (1958) ha studiato e scritto del razzismo e del totalitarismo, e ha rivendicato la misura e i modi peculiari della condizione delle donne nel campo di sterminio – più esattamente, la consapevolezza “che l’ideologia stessa dello sterminio nazifascista aveva una matrice sessuata” –  e la loro lunga e quasi distratta ignoranza (fra gli esempi opposti ricordo almeno, con amore, Anna Rossi Doria, 1938-2017, e Anna Bravo, 1938-2019).

Il libro ricompare alla vigilia esatta del Giorno della Memoria, con una introduzione aggiornata alla fine di ottobre. Le date non sono mai state tanto pesanti. Così che il libro ha un’efficacia attuale incomparabile con quella delle sue uscite precedenti, e insieme una sospensione allarmata, in giorni che riaprono, esacerbano e contraffanno l’intera storia che si credeva consacrata a fondare la convivenza civile e si temeva insidiata da un’abitudine retorica. “Una normalizzazione funesta quanto il negazionismo: un turismo di massa, un’editoria di massa, un cinema di massa…”. Mentre ne scrivo, alla vigilia appunto, Francesco Cataluccio mi manda notizie del viaggio di studenti milanesi ad Auschwitz, e arrivano la decisione e le prescrizioni della Corte dell’Aia. Le voci di queste e altre testimoni di cui Padoan si fa erede dicono l’angoscia di un ritorno di quei pensieri e quelle parole, e di un’inversione di significati – “uno sfregio”, ha protestato Edith Bruck. Un articolo di Haaretz di ieri si intitolava amaramente “Dalla negazione dell’Olocausto a un Olocausto per ciascuno” – una perifrasi buona alla manifestazione indetta con la citazione di Primo Levi. Al quale appartiene il titolo del libro di Padoan, il grembo di donna “come una rana d’inverno”. La sfida di oggi – di oggi, letteralmente, 27 gennaio – sta nella resistenza lucida e ferma alla confusione. Dubito che il paragone fra il pogrom del 7 ottobre e la Shoah, anche il meglio intenzionato, aiuti a sventare la confusione.

Padoan non esita a scriversi come – erede, ho scritto, ma qualcosa di più e di diverso, una trasfusione, o non so come chiamarla, nutrita dallo scambio intimo con queste protagoniste e testimoni. “Figlia”, forse, nelle sue audaci parole: “Conversazione dopo conversazione, si era sviluppata in me una tensione a restituire le parole, gli aggettivi, l’inflessione, le pause e i silenzi che racchiudevano quel che promanava da un nocciolo di buio intangibile e prezioso. Fin quando, senza che me ne rendessi conto, cominciò a circolare nel mio corpo un frammento dello stesso sangue, dello stesso ‘nero latte’ della Shoah, e ogni racconto, ogni offesa fatta a loro, anche la più piccola, divenne per me dolorosa e inaccettabile come fosse stata inferta a mia madre”.
Nero latte, immagine materna per eccellenza, e a Padoan non importa nominare il poeta o la poetessa. Le importa, e la incarna, la continuazione. “Ora è tardi – le disse Goti Bauer più di vent’anni fa – ormai siamo vecchie, non abbiamo più il tempo”. Questione tremenda (un termine di confronto, troppo minore, ma così da mettere in guardia, sta nella vicenda dell’Anpi). Mi basta citarla, senza che indebolisca la bellezza dei racconti, dei pensieri e delle immagini di queste grandi donne.

Sulle compagne di scuola e amiche del cuore che da un giorno all’altro andavano sul marciapiede opposto per non doverle riconoscere – come gli ipocriti sulla via di Gerico, erano le figlie dei bravi genitori italiani. Sulle scarpe spaiate d’ordinanza, che per loro potevano avere un tacco sì e uno no. Sulla violenza sessuale che di norma non c’era, perché sarebbe stata al di sotto della violenza totale. Sulle famiglie ritrovate, che potevano raccomandare di tacere per il buon nome loro e proprio, come si faceva, si fa, con una figlia stuprata, o non creduta. Su una solidarietà, un sostenersi di sorelle, che segnava una differenza dagli uomini: Giuliana Tedeschi la descrive con immagini bellissime di fili e tessitura. “Sapevamo, quasi d’istinto, che la nostra vita era come una maglia dai punti strettamente intrecciati; una volta reciso un punto, il filo si snoda si perde”. Sul modo di sentirsi italiane: “Avevo sognato così tante volte il momento in cui avrei passato la frontiera, il momento in cui sarei stata di nuovo in Italia” (nell’Italia che le aveva cacciate, razziate e consegnate).

“Nelle prime selezioni di Auschwitz donne e bambini costituirono il 60-70 per cento di coloro che furono inviati alle camere a gas”. Le cronache di oggi dicono che il 60-70 per cento delle vittime di Gaza sono donne e bambini. Non sarà facile guardarsi dalla confusione. La fatica con cui è emerso il connotato sessista della razzia del 7 ottobre rende più pregnante l’esperienza vissuta dalle donne del lager. E’ una differenza. Ieri Mattarella ha impiegato per il 7 ottobre l’aggettivo: indicibile. Anche questa è un’annosa questione. Indicibile – innominabile, inimmaginabile… – anche Padoan li conserva, proprio mentre ascolta raccontare e racconta. Forse pensiamo che la Shoah sia indicibile e la distruzione di Gaza dicibile? Può darsi, non è solo un paradosso. Forse dobbiamo pensare, noi che siamo venuti “dopo”, e abbiamo escluso di poterci trovare in un altro inimmaginato “prima”, che tutto sia dicibile, benché costi carissimo. Chissà.

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