(foto Ansa)

Piccola posta

Aspettando Trump: le ambizioni a parole dell'ex presidente sulla guerra in Ucraina

Adriano Sofri

Chi come Netanyahu scommette sul ritorno di the Donald e chi gli dice: pensa prima di parlare

Nove mesi e mezzo ci separano dalle elezioni presidenziali americane. La frase successiva, in un articolo che si rispetti, è: “In nove mesi e mezzo può succedere di tutto”. Dovrà pur venire un giorno – quando mancheranno cinque mesi, quando mancheranno nove settimane e mezza, o appena due pomeriggi – in cui non potrà più succedere di tutto, e tutto sarà già successo. Per ora, teniamoci cara l’incertezza: in nove mesi e passa può succedere anche che uno dei due muoia di vecchiaia, o tutti e due, e sarebbe un esito dei più secondo natura.

Gli astanti tergiversano aspettando che le cose siano chiare abbastanza per farli andare sul sicuro. Il ricordo delle elezioni scorse si è offuscato, ma andrebbe recuperato con un certo divertimento, per la spensieratezza di certe conversioni a Donald Trump che hanno richiesto anni di zelo opposto per cancellarne le tracce. Vedrete che questa duttilità, diciamo, si ripeterà – si sta già ripetendo. Del resto non vale solo per gli Stati Uniti, vale altrettanto, nel suo piccolo, per l’Italia.

Per ora, i casi più interessanti sono due. A parte Putin, il cui amore per Trump, teneramente corrisposto, gli fa posporre qualunque trattamento della pratica ucraina al giorno successivo alla auspicata rielezione di Donald. I casi interessanti sono quelli, opposti, di Netanyahu e di Zelensky.

Netanyahu, e la sua strenua, indecente lotta per la sopravvivenza propria e della propria famiglia spacciata per sopravvivenza di Israele, punta d’azzardo su un solo numero: durare un minuto più della presidenza di Biden. “Finché io sarò primo ministro”, proclama, e vuol dire solo questo.
Zelensky ha un vecchio conto non saldato con Trump, e più esattamente Trump con lui, che non lo servì a dovere sulla questione Hunter Biden. Conto rincarato dall’opposizione del Congresso repubblicano agli aiuti all’Ucraina. Qualche giorno fa, a Davos, era sembrato che Zelensky volesse adottare una posizione aperta nei confronti del futuro risultato presidenziale. “L’Ucraina lavorerà con il presidente che gli americani avranno eletto… Noi rispettiamo il popolo americano e credo che un solo uomo non potrà cambiare un intero paese”. Aveva poi aggiunto, meno diplomaticamente: “Trump dice che può fermare la guerra sedendo con me e con Putin. E che se Putin non si ferma, darebbe più armi all’Ucraina, ma se l’Ucraina non si ferma, fermerebbe il sostegno a noi. Ma se Trump non ci sostiene perché non siamo d’accordo a cedere i nostri territori e ferma gli aiuti, Putin fa presto a occuparci. Cosa farebbe allora Trump, con l’Ucraina occupata e Putin che minaccia qualche paese della Nato? Se si permette a Putin di attraversare l’Ucraina, pensa che poi la Russia si fermerebbe? Cazzate. Se succedesse, si sarebbe perso l’esercito più forte d’Europa, e il più capace di fermare la Russia”. E aveva concluso con una frase piuttosto tagliente: “Mio padre mi diceva sempre: pensa prima di parlare”.

Tornato in patria, Zelensky ha ritenuto di essere ancora più chiaro. “Trump ha detto di poter fermare la guerra in 24 ore: be’, venga a Kyiv, e lo faccia. Magari ha una vera idea e può condividerla con me”. Trump ha fatto orecchie di mercante all’invito a Kyiv, ha cantato la sua ammirazione per Orbán, rivantato la sua conoscenza sia di Putin che di Zelensky, e ribadito che risolverà la questione della guerra d’Ucraina “ancora prima di entrare in carica”. Chissà, forse ha fatto un altro passo più lungo della gamba, e qualcuno potrà chiedergliene conto, prima che entri in carica e soprattutto prima del voto che gliela dia. Quanto a Zelensky, ha fatto la sua scelta. Come Netanyahu. Al contrario di Netanyahu.

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