(foto Ansa)

Piccola posta

"Gli anni Sessanta" di Deaglio, un volume da regalare a chi c'era e a chi no

Adriano Sofri

Un libro per castigare "ridendo mores". Per chi c'era e chi non c'era, per non ignorare il passato: una grand'opera

Pubblicità e progresso. Non c’è strenna migliore che il gran volume "C’era una volta in Italia" di Enrico Deaglio su “Gli anni Sessanta”. Scrivo volume e non libro, perché ha il proposito, riuscito, di concorrere con altri racconti multimediali, compreso quello apparentemente imbattibile dei documentari filmati. Sull’isola deserta e fra poco sommersa dall’innalzamento dei mari, per esempio, l’unico testo capace di rivaleggiare con questo, e di surclassarlo per volume, sarebbe un elenco telefonico coevo – anzi dieci – che ora si potrebbe leggere come una Spoon River di vivi e morti, e di generazioni a venire.

  

Deaglio ci si è preparato per più di settant’anni e molti sperimenti, e prima di tutto dalla formazione medica, la più idonea ad auscultare battiti e rantoli della vita che scorre nel corpo sociale, e ha finalmente scelto il suo punto d’avvio, il suo ab urbe condita, il 1960, il sedicente miracolo arrivato a mutarsi nella sua rendita, e il punto d’arrivo provvisorio, quel dicembre del 1969. Dunque un decennalista, con l’impegno audace (goldoniano: 16 commedie nuove nel 1751) a tirar fuori un decennio a ogni fine d’anno. E giacché ci sono, protesto con veemenza contro l’abitudine di telegiornali e altre chiacchiere di chiamare decade un decennio invece che dieci giorni, che è il nostro vantaggio sull’inglese. Di Deaglio, come degli annalisti romani, si può chiedersi quale sia l’intento maggiore: di castigare ridendo mores, direi. Ciò che a tutta prima è una premura necessaria per i giovani, come si dice, per chi non c’era, in un tempo che, come si dice, non conosce che un eterno presente e ignora il passato dunque è disarmato dal futuro. Si compri dunque il libro ai giovani, che saranno conquistati dalla mescolanza vorticosa di generi e linguaggi, che canzone si cantava durante quella crisi dei missili, e che missili si installavano mentre a Via Veneto scorreva la dolce vita.
  
Ma lettrici e lettori più conquistati saranno quelli che c’erano, e si accorgeranno che non c’erano, come Fabrizio a Waterloo (Stendhal, Certosa, non importa), perché non solo le grandi battaglie napoleoniche sono incomprensibili a chi sta sul campo e perfino a chi crede di guidarle, ma anche i giorni di pace, che corrono per lo più, ancora nel frastuono di oggi, sul doppio registro della vita pubblica e di quella personale, sicché ciascun minuscolo contabile tapino (arriverà nel 1971, cioè nel prossimo volume di E.D.) somiglia in questo a quel gran re che la sera del 14 luglio in cui la Bastiglia fu presa, ed era semivuota, annotò di non aver acchiappato niente nella sua caccia quotidiana. Io, per esempio, che fui il protagonista indiscusso della mia vita negli anni Sessanta, non faccio quasi capolino nel libro, che peraltro si legge e guarda (c’è il meglio dell’efficacia dei fotoromanzi di una volta) piuttosto ad apertura di pagina che di seguito, e può far ottima vece di Trivial. Bene, amicus Deaglio, sed magis amica veritas: grand’opera. Un ponte aereo e accidentato sullo Stretto fra il ’59 e il ’71. A gennaio 1960 muore Fausto Coppi, il ciclista, a dicembre 1969 muore Pino Pinelli, quello del motorino. (Pp. 600, riccamente illustrate, Feltrinelli, euro 35).

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