Odessa (Ansa)

piccola posta

In memoria di Golubovskij, che rivendicò i russi che la Russia ha preteso di prendere in ostaggio

Adriano Sofri

Giornalista, critico, scrittore, ogni sera ricordava la ricorrenza letteraria del giorno. È morto a Odessa, la città dove era nato nel 1936, dopo avere assistito alla sua ignobile aggressione

Evgenij Mikhailovich Golubovskij è morto il 6 agosto a Odessa, dove era nato nel dicembre del 1936. Di famiglia ebraica, aveva studiato al Politecnico cittadino, dal quale, a vent’anni, rischiò di essere espulso per aver promosso un incontro sull’arte contemporanea che scandalizzò i titolari del realismo socialista: intervennero per lui Il’ja Ehrenburg e Boris Polevoy, giornalisti e scrittori della generazione precedente troppo autorevoli per essere ignorati. Lavorò per alcuni anni come ingegnere, ma era vocato all’arte, alla poesia e alla letteratura, al giornalismo, e soprattutto all’amore per Odessa, la sua storia e le sue memorie. E’ stato critico d’arte e promotore di artisti, fondatore e direttore di giornali e riviste, animatore di circoli letterari e di musei, scrittore prolifico e devoto alle amicizie. Era sposato con Valentina Stepanovna Golubovskaya (1939-2018), anche lei scrittrice e docente e animatrice della vita culturale odessita. Grazie alla loro figlia Anna, fotografa, editrice, saggista, ho incontrato Evgenij nella sua casa gremita di quadri, scaffali bibliofili di prime edizioni novecentesche, e cimeli cittadini. Ci ero stato la prima volta esattamente un anno fa, una domenica 7 agosto, lo so perché avevo vantato con lui il possesso di una prima edizione dei “Dodici” di Blok, e mi aveva risposto: “Alexander Blok è morto in questo giorno, il 7 agosto 1921, 101 anni fa”.

In quella casa, benché fosse indebolito e stanco e limitasse le uscite a poche occasioni – una delle quali la sua celebrazione come cittadino onorario – Evgenij scriveva ogni notte su Facebook un lungo pezzo dedicato all’anniversario letterario o artistico del giorno, composto in forma di antologia accompagnata da notizie, commenti e ricordi personali. Quei testi, a volte estemporanei altre volte ripresi dai suoi innumerevoli articoli e libri, nonostante la loro complessità e lunghezza avevano il seguito partecipe di centinaia di lettrici e lettori. Questa lunga fedeltà, meritava già di colpire l’immaginazione. Poi la guerra ne aveva bruscamente mutato il senso – la guerra inaspettata e non voluta, tanto più da chi nella Seconda Guerra, e con quella storia e in quel luogo, era stato bambino.

Alla poesia e alla letteratura e all’arte in russo, alla lingua russa, Evgenij apparteneva, così come all’intera storia della città di Odessa, e non alla sua risciacquatura fanatica: dunque aveva sentito l’oltraggio dell’aggressione alla libertà ucraina, che era il suo paese, in nome di una Russia usurpata. In questi giorni ho ascoltato uno scrittore e slavista italiano, Igor Sibaldi, che conosco soprattutto per i suoi studi tolstoiani, dire che esistono i russi, ma la Russia no: forse era una boutade. Mi chiedo che cosa ne direbbe Evgenij, che tanta tenacia ha messo nel rivendicare gli innumerevoli russi e russe che questa Russia ha preteso di prendere in ostaggio. Il vecchio cronista e critico e maestro era restato sempre più solo e sempre più isolato – l’ultimo ad andarsene prima del tempo, Oleg Gubar, che aveva inseguito e ripercorso ogni passo di Pushkin a Odessa, nella Odessa in cui qualche invasato andava ora a sfregiarne la statua. Stava adesso combattendo la propria resistenza, dalla trincea di quella casa fatta per il tè e la musica e la conversazione. In un primo periodo i suoi pezzi quotidiani, su Anna Achmatova, su Isaak Babel’, su Michail Zhvanetzky, su Vlada Ilyinskaya, giovane poetessa di Odessa in viaggio in Israele, erano completati dall’aggiornamento sulla guerra, le vittime, umani e luoghi, dei bombardamenti, il modo delle persone di reagire. Poi aveva smesso, deve aver pensato che fosse superfluo. E soprattutto, che la sua parte di sentinella stesse nello scritto quotidiano, inerme com’era, e attaccato  al mondo come dovrebbe essere, e come era stato, quasi sempre al costo più esoso. Era come uno che faccia la guardia ai vivi e ai morti, ai morti soprattutto, che erano la maggioranza, fra i suoi. Si ricordava quando erano nati, quando avevano pubblicato il loro primo libro di poesie, quando avevano cantato nella loro prima opera, quando erano stati prelevati dalla polizia politica, e che faccia avevano quella volta e quell’altra.

L’inverno anche a Odessa è stato duro. A lungo Evgenij a casa non aveva riscaldamento, aveva la corrente elettrica per minuti o tutt’al più per poche ore, spesso senza sapere quando. Bisognava vegliare, per cogliere l’occasione e spedire il proprio messaggio all’imperatore. Leggevo tutti i giorni i suoi post così istruttivi e così pieni di aneddoti vividi, e guardavo a che ora del giorno e soprattutto della notte li avesse spediti, approfittando di un’improvvisa connessione.

Più o meno una settimana fa gli scritti di Evgenij si erano interrotti, le forze gli erano mancate e gli era restata Anna, a fare in modo che si curasse ancora e però a riportarlo ogni volta a casa, che era il posto in cui voleva morire. Il posto del suo mite e ostinato combattimento. La casa di Anna, ora.

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