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Piccola posta

Perché Lukashenka ha dato in comodato d'uso a Putin la sua Bielorussia

Adriano Sofri

Nelle repubbliche che funzionano come monarchie i presidenti sono più esattamente dei dittatori ed è quello che succede a Mosca e Minsk. I due sono da sempre buoni amici e con la confidenza che li lega hanno deciso della sorte dell’avventuroso Prigozhin

E’ ora di chiedersi che cosa sia la Bielorussia. E’ una repubblica presidenziale. Il nome di repubblica è puramente decorativo, dal momento che da quando esiste, 1994, ha avuto un solo presidente, Aljaksandr Ryhoravič Lukashenka, proprio come se fosse stata una monarchia. Nelle repubbliche che funzionano come monarchie i presidenti sono più esattamente dei dittatori. (Per esempio in Russia, dove Putin, compreso lo scherzo dello sgambetto con Medvedev, è in sella dal 1999). 

Ha due lingue ufficiali, il bielorusso e il russo: ma il bielorusso (in Bielorussia) è malvisto dal potere e sospettato di essere la lingua del nemico intestino, dunque il russo. Ha un territorio di poco più di 200 mila chilometri quadrati, due terzi dell’Italia, e appena dieci milioni di abitanti, più di 2 milioni nella capitale, Minsk. La speranza di vita è di 14 anni inferiore all’italiana. Non ha sbocchi al mare, e confina con Polonia, Lituania, Lettonia, Russia e Ucraina, altrettanti grattacapi. Unica in Europa, ha la pena di morte, e ogni tanto, per non perdere la mano, la esegue. E’ anche l’unica a conservare al suo servizio segreto il vecchio caro nome di Kgb. 

E’ così vicina all’Ucraina che il disastro di Cernobyl’ ne contaminò una buona parte. Quando, fra poco, i russi friggeranno la centrale di Enerhodar (Zaporizhzhia), la cosa si ripeterà, appena un po’ più distante. Per più versi la Bielorussia è una specie di Ucraina minore. Anche per il desiderio di una buona metà, o più, della sua gente, di appartenere all’Europa piuttosto che alla Russia, con la differenza che mentre l’Ucraina di Maidan riuscì a cacciare il presidente infeudato al Cremlino Yanukovich nel 2014, un gran movimento di piazza in Bielorussia non riuscì ad aver ragione della repressione di Lukashenka. (La Cia non dedicò alla piazza di Minsk altrettanta premura, direbbero quelli del colpo di stato di Maidan). Repressione che ha continuato senza sosta: le carceri bielorusse sono piene di oppositori effettivi o solo sospetti. E’ uno di quei paesi in cui la stessa persona può ambire a procurarsi dieci anni di galera e il Nobel per la Pace, come Ales Bialiatski. E’ anche un paese in cui una grande scrittrice come Svjatlana Aleksievic può vincere il Nobel per la Letteratura e scampare in extremis alla galera con la fuga. 

La Bielorussia è legata alla Federazione russa da un vincolo esemplarmente fraterno. Quando l’armata russa ebbe voglia di andare a Kiev-Kyiv, fare secco Zelensky e famiglia, sostituirgli il brutto oligarca Medvedchuk e altre persone perbene, e svolgere la parata celebrativa, passò da lì senza bisogno di chiedere permesso. In Bielorussia tuttavia esiste un movimento clandestino di resistenza, e ferrovieri meno ospitali si adoperarono a disturbare i trasporti di truppe del Grande Fratello. Circostanze che hanno finora trattenuto Lukashenka dal prendere il proprio posto sul fronte dell’invasione dell’Ucraina. 

In compenso, nel giro di pochi giorni, fino allo scorso weekend, Lukashenka è riuscito a dare in comodato d’uso alla Russia i siti adatti a ospitare i moderni missili dotati di testate nucleari – la Russia ne ha da vendere, seimila – e a offrire riparo al prode Prigozhin, protagonista di una marcia su Mosca che ha messo a repentaglio la sopravvivenza della Madre Russia. Lukashenka e Putin sono da sempre buoni amici, come testimoniano le fotografie dei loro incontri, specialmente una in cui sono seduti, a una rara distanza d’uomo, a una tavola imbandita e il presidente bielorusso è senza giacca e con la camicia bianca dalle maniche arrotolate, confidenza permessa a pochi. Con la stessa confidenza i due hanno conversato della sorte dell’avventuroso Prigozhin, il gran comandante che fa castigare a morte i soldati renitenti a suon di martellate sul cranio riprese in video, come un Brusca qualunque. E come due capifamiglia di Cosa Nostra si sono detti, i due presidenti: “Lo vogliamo uccidere?” “Non c’è problema”. “Se non ci riusciamo al primo tentativo, al secondo certo è fatta”. Così ha riferito Lukashenka, che, proprio come un Totò Riina, ha il gusto del racconto ammiccante. Meglio di no, per ora, hanno deciso, e Lukashenka se l’è preso lui, Prigozhin e qualche ottomila picciotti, spogliati di tank e armi pesanti, trasferite alla Rosgvardia di Putin, tanto per avere un ennesimo esercito agguerrito in più nella collezione. 

Putin intanto dedicava un minuto di silenzio alle decine di piloti e altri militari regolari russi liquidati dalla marcia Wagner (povero Wagner, anche le marce) e cinque minuti alla commemorazione del valor militare delle sue forze armate, meritevoli di non aver mosso un dito così da assicurare allo stato russo una vittoria fatale più o meno come Stalingrado. La madre russa, Kirill e tutto, vittoriosa sull’invasore russo.

E Prigozhin? Chi sa. Forse cederà al mal d’Africa. Forse rimetterà insieme la sua armata e coglierà l’occasione di una mala parata dei regolari russi per invadere dalla nuova patria l’Ucraina e procacciarsi la gloria di una seconda Bakhmut-Artjomovsk e un ritorno trionfale a San Pietroburgo, orecchie, coda e coglioni. Forse si farà tentare dall’idea di fare un colpo di stato vero, senza dietrofront, contro il Lukashenka che si sta facendo bello della sua figuraccia, e si vanta di averlo ammonito: “Sarai schiacciato come una cimice” (o “una pulce”, in altre traduzioni; terrei la cimice, in memoria di quel Majakovskij). Intanto, mentre i civili ucraini continuano a morire ammazzati, “bambini compresi”, come si dice, e i soldati ucraini continuano ad avanzare sui campi minati, le cronache scrivono in tutta serietà che a Prigozhin è stato riservato un albergo “senza finestre”, perché non si sa mai. 

Resta da tirare le somme provvisorie. Il popolo russo non si è mosso per Prigozhin. Non si è mosso per Putin. Il popolo russo, insomma, non si è mosso. Dopotutto, non era la Grande Guerra Patriottica, era solo l’Operazione militare speciale.