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In Russia il ricorso al nucleare non è mai diventato un vero tabù

Adriano Sofri

Negli ultimi giorni, decisioni e toni sulla questione si sono infittiti e aggravati. Ma è comprensibile che la cosa non sia oggetto di dichiarazioni ufficiali. Un banco di prova senza precedenti

Solo qualche notiziario ucraino citava sommariamente ieri la risoluzione proposta al Senato americano da Richard Blumenthal, senatore democratico per il Connecticut, e Lindsey Graham, senatore repubblicano per la Carolina del sud, e illustrata congiuntamente in una conferenza stampa giovedì. “Qualunque impiego di un’arma nucleare tattica da parte della Russia, della Bielorussia, o di loro agenti, o la distruzione di un impianto nucleare che provochi la dispersione di contaminanti radioattivi in un territorio della Nato, verrebbe considerato come un attacco alla Nato stessa”. Posizione che estenderebbe il famoso art .5 della Nato all’Ucraina senza bisogno di inglobarla nel Trattato.

Negli ultimi giorni, decisioni e toni russi sulla questione nucleare si sono infittiti e aggravati, a partire dall’installazione di missili con testate nucleari in Bielorussia. Putin ha magnificato i successi delle costruzioni di armamenti nucleari di terra e sottomarini, e della loro dislocazione. Lui e Medvedev hanno vantato la superiorità quantitativa del loro arsenale atomico rispetto al resto del mondo. Zelensky ha ripetuto che Putin è troppo attaccato alla vita – la sua – per avventurarsi nel ricorso alla bomba atomica, dando per scontata una risposta all’ingrosso che cancellerebbe al minuto la sopravvivenza di Putin. Gli ucraini, da parte loro, hanno rincarato gli avvertimenti sulla probabilità di un ricorso di fatto militare dei russi al sabotaggio della centrale nucleare di Energodar, nell’oblast’ di Zaporizhzhia, arrivando a dare indicazioni alla popolazione nel caso di una contaminazione radioattiva – non particolarmente rassicuranti, del resto: nel giorno della dispersione radioattiva, se non si fosse abbastanza vicini a un rifugio, restarsene chiusi in casa piuttosto che cercare di fuggire.

La risoluzione dei due senatori americani, entrambi noti per un impegno accanito al fianco dell’Ucraina (contro Graham, la giustizia russa ha emesso il 29 maggio scorso un mandato di cattura dopo che, in visita a Kyiv, aveva dichiarato che i russi stavano morendo, e che i soldi americani a sostegno dell’Ucraina erano i meglio spesi – frasi accostate dall’interpretazione russa) non avrà alcuna incidenza pratica. Di fatto, l’informazione sulla risposta della Nato a un ricorso russo all’armamento nucleare “tattico” o all’uso militare del nucleare civile – come già della rottura della diga di Kakhovka – è ferma a qualche generica dichiarazione di singoli esponenti politici o funzionari, secondo cui non ci sarebbe una risposta atomica, ma una reazione “fisica” tale da distruggere l’intero sistema militare russo.

E’ piuttosto comprensibile che una questione simile non sia oggetto di pubbliche e circostanziate dichiarazioni ufficiali, sia per motivi di sicurezza ed efficacia, sia per il proposito di non banalizzare ulteriormente il tabù così largamente infranto dell’atomica. E’ anche vero che la guerra russa contro l’Ucraina è diventata un banco di prova senza precedenti (la crisi dei missili a Cuba apparteneva a un’altra epoca e a un altro sistema di poteri) del modo di fronteggiare una potenza militare dotata di un arsenale atomico, che si mostri disposta a farne uso. C’è una segretezza dei pochi responsabili – o irresponsabili – che è irrealistico immaginare di rendere trasparente. Ma c’è anche una rinuncia delle persone comuni, cioè delle persone, a pensare pubblicamente a ciò che è possibile. Questa rinuncia somiglia, qualunque nobile proposito accampi, a un esorcismo. I tabù, una volta rotti, non si ricostruiscono. E del resto non era mai diventato un vero tabù.

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