Un’illustrazione americana con il presidente Roosevelt che invita lo zar Nicola II a cessare l’oppressione degli ebrei in Russia (Wikipedia)

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Il pogrom di Kišinëv, una tragedia ancora attuale

Adriano Sofri

Il massacro antisemita nella Moldavia zarista del 1903 fu un evento di una ferocia bestiale, ed ebbe una vasta e fatale ripercussione mondiale. Cambiò la storia degli ebrei in Europa, America e Palestina

Per chi entra o esce dall’Ucraina dal sud di Odessa, Kišinëv è diventata un luogo familiare. Succede di fermarsi per una notte, o comunque di trascorrere qualche ora all’aeroporto, affabilmente, perché le compagne di viaggio sono per lo più signore che si prendono cura di vecchi italiani, e sono contente di chiacchierare nella loro nuova lingua. Kišinëv è un nome un po’ fiabesco – nuova sorgente, è l’etimologia antico-rumena – ed evita di ricordare che il nome russo, Kišinëv, era, “prima dell’Olocausto, di Buchenwald e di Auschwitz, la parola che più prontamente richiamava alla mente degli ebrei l’orrore moderno”. Dice così Steven Zipperstein (1950), storico dell’ebraismo a Stanford, autore di un libro “classico” sugli ebrei di Odessa tra il 1794 e il 1881, uscito nel 1985, e, nel 2018, di un testo divenuto fondamentale per la storia del Pogrom di Kišinëv del 1903, quello dell’orrore proverbiale: “Pogrom: Kishinev and the Tilt of History”. E’ una storia straordinaria e avvincente, che Zipperstein ricostruisce, in parte corregge, e porta fino all’identificazione (già segnalata prima di lui) dell’autore dei famigerati “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”. La cronaca di queste ore, che mette Transnistria e Moldavia al centro di una pressione golpista filorussa legata alla guerra d’Ucraina, offre un dettaglio romanzesco amaro e ghiotto per i fantasisti delle cospirazioni, perché Ilan Shor, l’“oligarca” che finanzia e muove le fila della mobilitazione putinista, è nato a Tel Aviv da genitori ebrei moldavi trasferiti in Israele negli anni 70 e tornati in Moldavia nel 1990, un anno prima della proclamazione della Repubblica indipendente. Shor è stato parlamentare del partito filorusso Sor, e soprattutto protagonista di una colossale frode finanziaria che dal 2014 costò la bancarotta di tre banche, con una perdita vicina a un miliardo di dollari, equivalente a un ottavo del pil del paese. All’indomani dello scandalo e del riconoscimento della sua responsabilità, a Shor fu consentito di candidarsi a Orhei e di divenirne sindaco col 62 per cento dei voti. Del resto l’attualità di queste vecchie storie non fa che riaffacciarsi, come un avvertimento e spesso come un incubo (oggi, mentre le ricordo, a Tel Aviv si confrontano due idee di Israele, di quel paese la cui matrice essenziale sta nelle città vicine di Odessa e della sua sorella minore Kišinëv).

  

Ma al diavolo Shor, e vediamo come mai il pogrom di Kišinëv del 1903, che fece 49 assassinati e circa 500 tra feriti e donne stuprate – una ferocia bestiale, ma una bazzecola rispetto ai numeri imminenti di pogrom e stermini in Bessarabia e in Ucraina – ebbe una così vasta e fatale ripercussione mondiale, e cambiò la storia degli ebrei, nell’Europa centro-orientale, in America, e in Palestina. Zipperstein indica i due attori maggiori di questa risonanza senza precedenti.

 

Bialik non tacque degli stupri, e al contrario diede loro il risalto che avevano avuto nella bufera del pogrom

 

Il primo è un fotografo e giornalista e militante irredentista irlandese, Mark Davitt, mutilato di un braccio, che il magnate della stampa William Randolph Hearst, contando (invano, si vide) di ricavarne un vantaggio alla propria candidatura newyorkese, mandò a Kišinëv. Davitt raccolse le testimonianze delle vittime e le pubblicò fedelmente e vividamente, rinunciando al racconto degli stupri. Quei pezzi e le fotografie che, per la prima volta, li accompagnavano, resero il nome russo di pogrom – una tempesta devastante – familiare agli americani e al resto del mondo, e fecero un meritato scalpore. Ne fece altrettanto, più sottile ma più duraturo, l’inchiesta condotta dal trentenne Chaim Nachman Bialik, il quale accorse a Kišinëv da Odessa, e interrogò anche lui i testimoni, e trasformò il suo resoconto in un poema, “Nella città del massacro”, in ebraico e poi tradotto da lui stesso in yiddish, “il più bello e il più influente mai scritto dal medioevo in qua”. Bialik non tacque degli stupri, e al contrario diede loro il risalto che avevano avuto nella bufera del pogrom. Solo un giorno e mezzo, tra il 19 e il 20 aprile, era infatti durato, a ridosso della Pasqua, l’occasione prediletta per le campagne di odio contro gli ebrei “deicidi”, e per il rilancio dell’accusa del sangue di bambini cristiani usato nei loro sacrifici. Bialik seppe che gli ebrei avevano resistito alla furia delle migliaia di persecutori e alcuni erano morti per questo, ma volle mettere al centro della propria formidabile invettiva la viltà degli uomini che avevano assistito inerti alla violenza sulle donne. Di una analoga viltà aveva anche scritto nei suoi appunti Davitt, il quale diventò un eroe della memoria ebraica dopo di allora, ma non aveva a priori una solidarietà per gli ebrei, e aveva fatto il suo mestiere.

 

Non posso nemmeno provare, qui, a riaffrontare la questione della presunta inerme rassegnazione ebraica a far da vittima designata. Ma è un fatto che nella guerra d’Ucraina, nel luogo in cui tutte le ferite sono ancora aperte e anzi esacerbate, è inevitabile domandarsi se, al di là delle creature umane che sono passate nel mondo senza fare il male e senza desiderarlo e augurarlo, di cui la storia stenta a trovare traccia, esista qualche gruppo umano, definito da una condizione comune oggettiva, una nazione, una religione (un genere?), che non abbia preso una sua parte nella distribuzione della violenza universale. Ho scritto l’altro giorno che non c’è quasi famiglia, in Ucraina, che non annoveri i suoi assassinati e i suoi assassini, e che questo dà conto, senza risolverla, della presa di fenomeni come il “banderismo”, la devozione al nazionalista radicale, e fascista, Stepan Bandera, assassinato dal Kgb nel 1959 (due suoi fratelli morirono ad Auschwitz, e questa frase lascia senza parole, se non si ricordi che ad Auschwitz c’erano anche luoghi in cui la reclusione era ben diversa, e ben diverso il suo esito previsto – ne riparleremo).

 

 Per effetto del pogrom di Kišinëv, gli Stati Uniti fecero cadere gli ostacoli all’ingresso degli ebrei in fuga nel paese

 

Agli ebrei, in particolare agli ebrei della “Zona di Residenza” nell’occidente dell’impero russo e poi sovietico, è difficile addebitare una parte commisurabile di violenza. E’ difficile riferire loro la frase terribile di sopra su assassini e assassinati. L’antisemitismo più esaltato, il razzismo antisemita, deve inventare miti infami come l’“accusa del sangue”, o contentarsi di accusare l’ebreo “sanguisuga” del contadino povero, o l’ebreo agitatore rivoluzionario in odio alla cristianità o all’umanità: calunnie, professioni, o scelte politiche, mai una condizione in solido. Qualcuno lo dice così: che è difficile dare ordini militari in yiddish, che in yiddish è difficile essere fascisti. Di qui un paradosso enorme: che gli ebrei, in quanto ebrei – non dunque in quanto militanti politici eccetera – sono i soli a non avere colpe nello scialo della violenza politica novecentesca, e che la sola colpa che gli ebrei stessi si addebitano è di essere stati vili di fronte alle violenze subite dai propri simili. E’ uno degli effetti di quel modesto pogrom di Kišinëv 1903, replicato, su una scala ancora minore, nel 1905 (uno degli effetti sarebbe stato anche la creazione della Haganah, e dunque della forza armata israeliana).

 

 Per effetto del pogrom di Kišinëv, gli Stati Uniti fecero cadere gli ostacoli all’ingresso degli ebrei in fuga nel paese

 

Zipperstein esce quando già i temi delle fake news e del loro ruolo nella deriva delle cospirazioni sono tracimati, e rintraccia nel suo argomento del 1903 un precedente fondamentale. Per farlo calca la mano sulla sconfessione della tesi prevalente, a sua volta “cospiratoria”, sull’origine dei “Protocolli”, cioè del più micidiale falso che abbia operato nella storia moderna. Benché non sia il primo a sostenerlo (e fra gli studiosi cui si appoggia c’è il nostro Cesare G. De Michelis e il suo “Manoscritto inesistente. I Protocolli dei Savi di Sion”, Marsilio 1998, 2° ed. 2004) Zipperstein decide risolutamente di scartare l’ipotesi di un falso deliberatamente compilato dall’Ochrana, la polizia segreta zarista, per indicare l’autore (o almeno il coautore, con G. Butmi) in Pavel Krushevan. Krushevan è noto per aver pubblicato la prima versione dei “Protocolli” sul giornale da lui diretto a San Pietroburgo, Znamia, nel 1905, con una prefazione e una postfazione, più significative per ciò che tacciono che per ciò che dicono sull’origine del preteso manoscritto francese. Ma era stato il fondatore, a Kišinëv, dell’unico quotidiano cittadino, il Bessarabets, e ne aveva fatto la tribuna per la più fanatica e ossessiva campagna contro gli ebrei. Krushevan, che era nato nel 1860, aveva scritto molto, comprese prove letterarie e una idillica guida alla bellezza della regione, guastata solo dalla presenza giudaica, con un talento notevole, secondo i suoi studiosi. Qui il gioco dei falsi si fa sbalorditivo e raccapricciante, tanto più quando, come fa Zipperstein, si dà più credito a una specie di buona fede, per così dire, dei loro autori, rispetto alla intenzionale fabbricazione. Del resto, l’alibi frequente dei “Protocolli” sta nei commenti che li dichiarano “se non veri, verosimili”. Da una parte, c’è un’opinione internazionale che attribuisce allo zar e ai suoi servizi la decisione di rendere invivibile la Russia agli ebrei, e che si avvale anch’essa di un falso provato tale, come la lettera, pubblicata dal Times, del ministro dell’Interno di Nicola II, Vjačeslav Konstantinovič Pleve, un sicuro antisemita, che alla vigilia del pogrom assicura che polizia ed esercito non interverranno a impedirlo. La lettera ebbe un’enorme risonanza, non inficiata dalle smentite. Pleve fu poi ucciso da un socialista rivoluzionario in un ennesimo attentato nel 1904 (in una lettera privata, il giovane Chaim Weizmann commentò così: “C’è una cosa sola da dire: è un peccato che non se ne sia andato qualche anno fa; ora è stato mandato a dovere al Padre Abramo”).

 

Per effetto del pogrom di Kišinëv e dell’emozione che suscitò, gli Stati Uniti fecero cadere gli ostacoli all’ingresso degli ebrei, e fra il 1900 e il 1914 un milione e mezzo di loro vi emigrarono. Dall’altra parte, gli ortodossi ossessionati si persuadono, proprio in quel torno di anni, soprattutto per la presa del sionismo di Theodor Herzl – politicamente moderato, a differenza di posizioni come quella internazionalista e decisamente militante del Bund, ma più allarmante agli occhi dei difensori della cristianità minacciata dal proposito di comprare i Luoghi santi – che la potenza ebraica non fa che crescere e mirare alla conquista del mondo attraverso le sue moderne diavolerie, stampa e ferrovie. Benché Herzl stesso – che incontra Pleve nell’agosto 1903 – si sia persuaso, ancora di più a ridosso di Kišinëv, che la sopravvivenza ebraica è minacciata e che occorra apprestarle un riparo immediato e provvisorio in Uganda, presto lasciato cadere per il rifiuto britannico. E Herzl muore anche lui nel 1904. Krushevan morirà di cancro nel 1909, a 49 anni.

 

L’alibi frequente dei “Protocolli” sta nei commenti che li dichiarano “se non veri, verosimili”

 

C’è un altro aspetto del pogrom di Kišinëv che colpisce per la sua imprevista attualità. Grazie a una giovane ebrea viaggiatrice in Russia dopo il 1905, Anna Strunsky, e al suo compagno, William English Walling, il pogrom viene paragonato ai linciaggi dei neri: il pogrom antiebraico dello zar è l’equivalente del linciaggio antinero del regime bianco. L’Associazione nazionale per il progresso della gente di colore (Naacp) viene costituita nel 1909 in una stanza di casa della coppia.   

 

Ecco. Non so se e per quanto sarà ancora possibile atterrare o decollare a Chisinau, come ho appena fatto di nuovo, a noi che amiamo Odessa. Wizz Air ha già annullato i voli, Air Moldova ancora no. Volevo dire che, chi abbia qualche ora da far passare, o una notte intera, trova un monumento in marmo al pogrom del 1903, eretto 90 anni dopo, in un parco alberato (Parcul Alunelul) ai bordi di una strada urbana.