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Piccola posta

A Odessa c'è chi vuole la statua di un culturista al posto di Caterina la Grande

Adriano Sofri

Per una legge ucraina ogni petizione che raggiunga le 25 mila firme dev'essere sostenuta dal presidente. In piena ottica derussificatrice c'è chi le ha raccolte per sostituire il monumento alla zarina. Il rischio di cancellare parte della cultura di un paese bilingue

Odessa, dal nostro inviato. Ieri, 23 agosto, una delegazione di cittadini onorari e onorati della città di Odessa si è recata nel palazzo del governo di città per discutere della campagna di cancellazione della memoria cittadina e dei suoi monumenti. E di Caterina. Altre urgenze premono e la questione è stata aggiornata. Sono pochi i luoghi prestigiosi di Odessa ancora esclusi dagli sguardi e dai passi. La scalinata Potëmkin, il cui percorso spalanca la vista sul porto, e i principali musei, dai quali le opere sono state trasferite al sicuro nei primi giorni della guerra che ieri ha superato i sei mesi.

Fra i luoghi restituiti alla vista, al passeggio e alle soste sulle panchine c’è la piazza mirabilmente asimmetrica al centro della quale è collocato il Monumento ai Fondatori della città: la zarina Caterina II in cima a una colonna, e in basso i quattro suoi dipendenti e collaboratori (e, almeno un paio, amanti), il catalano-napoletano José de Ribas, l’ingegnere fiammingo François-Paul Sainte de Wollant, il principe di Tauride Grigorij Aleksandrovic Potëmkin, il russo governatore Platon Zubov. Progettato per il 1894, centenario della fondazione, e inaugurato nel 1900, l’anno dopo il gran monumento di bronzo e granito contribuì a far assegnare alla piazza Ekaterinskaya dall’Esposizione di architettura parigina il titolo di più bella piazza d’Europa. Nel 1920, il regime sovietico smantellò il monumento, salvo base e colonna, e solo nel 1965 gliene sostituì uno piuttosto avaro, ma rosso – falce e martello – in memoria degli ammutinati dell’incrociatore Potëmkin. Le quattro statue inferiori furono ricoverate in un museo regionale, Caterina finì un po’ mutilata un po’ immagazzinata. Tra gli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso progetti di restituzione del monumento si succedettero a proibizioni, finché nel 1995 il restauro fu deciso dal consiglio cittadino, promosso e finanziato soprattutto dal consigliere Ruslan Tarpan. (Tarpan, affarista, filorusso, coinvolto in un processo per appropriazione indebita multimilionaria, è riparato negli Emirati Arabi Uniti dal 2017). La statua di Caterina, 3 metri, fu completamente rifusa, l’intera piazza, compreso il selciato e le facciate dei palazzi, restaurata. L’inaugurazione avvenne nel 2007, salutata da un vasto concorso di cittadini, osteggiata fisicamente da nazionalisti e preti ortodossi denuncianti il sacrilegio. 

La piazza è bellissima anche ora, riaperta, col suo lato volto al mare, dove parte la scalinata sovrastata dall’altra statua celebre, il duca di Richelieu – il pronipote di quello – ancora interamente avvolta nei sacchi di sabbia di protezione. Era prevedibile che il monumento a Caterina la Grande – tedesca di nascita, peraltro – venisse investito dallo zelo della “derussificazione” (dalla biblioteca di Dnipro ha scritto ieri qui Pietro Guastamacchia): fu sì la madrina della fondazione della città e la felice responsabile del suo nome, che volse al femminile quello di Odisseo, ma fu anche colei che forzò l’assimilazione delle minoranze e mise fine all’autonomia dei cosacchi di Zaporizhia. Era meno prevedibile la forma che ha preso la crociata per la demolizione di zarina e fondatori. Una legge ucraina stabilisce che qualunque petizione raccolga un minimo di 25 mila firme, in tutto il paese, obblighi il presidente, dunque Volodymyr Zelensky, ad appoggiarla e raccomandarne l’esame alle autorità competenti. 25 mila firme, in tempo di social media, di autodidattismo ubriaco di sé e di eccitazione nazionale, sono un gioco da bambini, e più esattamente da adulti infantilizzati. Così i volonterosi che hanno raccolto le firme necessarie e le hanno depositate addosso all’incolpevole Zelensky, chiedono di smantellare Caterina e compagni e di sostituire loro un monumento a Bill Herrington (1969-2018), culturista, spogliarellista e pornostar gay, dichiaratamente etero, e infine wrestler erotico, col soprannome di Aniki (fratello maggiore), di gran successo in Giappone – dove la cosa si chiama, se non fraintendo, gachimuchi – e da lì anche nell’Ucraina degli ultimi anni. Dove, secondo l’opinione che trovo attribuita agli oppositori della statua di Caterina, “una scultura che lo raffiguri seduto al bar davanti a una bottiglia di birra farebbe felici i laureandi di Odessa e attirerebbe il turismo internazionale come una calamita”.

Non so garantire dell’esattezza di questa bischerata. Del resto, non avrei obiezioni all’erezione (la parola è nei testi compulsati) di un memoriale a Billy Herrington se non si volesse scambiare la sua figurina con quella della zarina o di Giuseppe Garibaldi o di Giulio Cesare. Questa mescolanza di goliardia e di provocazione narcisistica è un prodotto piuttosto universale, largamente entrato nello stesso gioco elettorale, che però in una situazione tragicamente seria come quella che fronteggia l’Ucraina può costare cara. Per dire brutalmente, penso che la sconfitta che più minaccia la resistenza ucraina, che resta altrimenti ammirevole, riguardi la cultura e la memoria. E la forma peculiare che assume in un paese che non ha solo due lingue in comune, ma può a ragione rivendicare due culture in comune, e reciprocamente comunicanti. Si tratta di decidere se gli ucraini Gogol’ o Bulgakov siano la letteratura russa o la letteratura in russo. E se sia il Putin di oggi a decidere dell’interpretazione del Pushkin dell’altroieri. Se sia patriottico opporsi alla lettura di una favola di Pushkin ai bambini di Odessa. Non c’è altro argomento se non questo sul quale dire la propria senza essere ucraini. Ma non dirlo, su questo, sarebbe imperdonabile.

Ugo Poletti ha scritto sul suo Journal of Odessa una veemente requisitoria in favore dei monumenti e della loro sopravvivenza, quando non siano oltraggiosi. Ha osservato che la maggioranza degli odessiti è contraria alla rimozione, e che è incongruo che decisioni simili siano prese da piccoli plebisciti forestieri. Altrettante mosse micidiali contro il cosmopolitismo di Odessa e la sua candidatura al patrimonio Unesco. Ha esortato a guardare a Trieste: chi vi arriva, a un binario morto – la fine di un mondo – esce dalla stazione e nel giardino della piazza trova il gran monumento a Sissi, l’imperatrice Elisabetta. C’è un dettaglio che rende più forte il suo argomento. La statua di Sissi, bronzo e marmo, inaugurata nel 1912 nella Trieste asburgica, fu smantellata dal Regno d’Italia nel 1921 e messa in un deposito. Ne fu tratta per essere ricollocata solo nel 1997. Dunque anche in Italia, a Trieste, si fece una bischerata dettata dal fanatismo nazionalista che era già fascista, e che stava per proibire la lingua slovena agli sloveni, e per contraffarne tutta la toponomastica.
Dicono, i fautori della tabula rasa, che i nostalgici sono i vecchi, e che la nuova Ucraina deve solo lasciare il passo ai giovani e ai bambini. Non c’è dubbio che un vecchio somigli a una statua di bronzo o di pietra molto più di un giovane. Ma una donna anziana, un uomo vecchio, non sono affezionati a una zarina, e in genere la sanno molto più lunga sui delitti di zarine e piccoli padri. Sono affezionati al mondo, ai suoi alberi, alle sue piazze. Sono affezionati a Odessa. E le cose che hanno visto, i più vecchi dei vecchi, dicono loro che si comincia da Caterina e si finisce a Isaak Babel’. Di nuovo.
 

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