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piccola posta

La differenza tra il negare le armi a Kyiv e impedirne agli altri l'invio

Adriano Sofri

La nonviolenza radicale che non ammette nemmeno la legittima difesa è probabilmente molto meno diffusa, sincera e vincolante di quanto non si deduca dalle pubbliche dichiarazioni. Un conto è dichiarare di non poter armare l'aggredito, un altro è impegnarsi a disarmarlo

Discriminante com’era stata a ridosso dell’invasione dell’Ucraina, la questione della fornitura di armi alla difesa di quel paese era diventata via via più oziosa, nella parte in cui riguardava l’intenzione personale di ciascuno. Ciascuno di noi infatti si era chiesto se avrebbe contribuito ad armare la resistenza ucraina all’aggressione, nessuno di noi aveva la più piccola fionda, la più fievole cerbottana, da trasmettere a quei combattenti. Trasferita sul piano dei governi, e ratificata la prima risposta – sì, l’Italia avrebbe partecipato come gli altri paesi europei e dell’alleanza militare di cui fa parte – è presto diventata una pretestuosa logomachia di armamenti difensivi o offensivi, carezzevoli o letali, e un varco golosamente occupato da capi partito ingordi di consensi, sulla falsariga sperimentata contro la tirannide dei vaccini. La disputa sul governo e le armi è priva di qualunque pregio morale, a differenza di quella sulla scelta personale, che per qualcuno è scelta fra accettazione necessitata della violenza e nonviolenza, per altri fedeltà alla legittima difesa, senza la quale è il diritto a scomparire. La nonviolenza – cui il chiacchiericcio corrente sostituisce il nome espropriato di pace – può essere una scelta radicale, che non ammetta per sé nemmeno l’eccezione della legittima difesa, nemmeno il soccorso legittimo all’inerme sopraffatto. Una simile scelta, che è a suo modo religiosa anche quando non abbia un’ispirazione positivamente religiosa, è, temo, molto ma molto meno diffusa, sincera e vincolante di quanto non si deduca dalle pubbliche dichiarazioni. E molto ma molto meno coerente (per fortuna): nelle sue varianti di sinistra, quanto si traduce in una dissociazione dall’attività delle donne combattenti yazide di Shingal, curde del Rojava, per fare una prova? 

Ci sono dati di fatto incontrovertibili. Uno è che non si poteva essere per il negoziato senza essere per la difesa armata degli ucraini, e si doveva sostenerne la difesa armata per consentire il negoziato. La premessa era che gli ucraini si difendevano, oltre ogni previsione non di noi, passanti senza conoscenza, ma dei loro tutori più, letteralmente, agguerriti, compreso il Pentagono, che aveva accordato loro una resistenza attorno alle 72 ore, come nel calcolo più prudente dei consiglieri di Vladimir Putin. La resa avrebbe ipso facto tolto di mezzo il negoziato: la resa non si negozia, si firma, come quando col ginocchio premuto sul collo si batte con una mano sul tappeto per implorare: Basta. La resa è stata il programma sentito ed effimero di molti dicitori della pace, e subito dopo, quando si è fatta evidente la strenuità della resistenza (malvista da lontano come un eccesso doloso di legittima difesa) le si è sostituito l’auspicio della sconfitta. Che cosa vuol dire se non questo la deplorazione dell’invio di troppe armi e troppo efficaci o sofisticate? Sono tante le possibili sincere, disinteressate, appassionate ragioni degli assolutisti della pace predicata, ma è un fatto che si è svolta una campagna vasta di educazione alla viltà, che ha recuperato malamente l’armamentario retorico del sacro egoismo nazionale, dello scongiuro dell’eventualità che la risacca della guerra nel cuore d’Europa venisse a lambire le nostre rive. (Era il vero brutto connotato del primo documento dell’Anpi, poi variamente corretto). 

Man mano che la guerra procedeva e gli eventi sul campo modificavano il paesaggio delle possibilità, è affiorata nella dirigenza ucraina e in quella dei grandi alleati, gli angloamericani soprattutto ma anche numerosi esponenti dell’Unione europea e dei singoli stati, la tentazione di rivendicare la “vittoria” ucraina. Si passava così la linea che fissava la più auspicabile, e delicata, regolazione di un conflitto così cruento e sempre sul punto di esorbitare dai suoi confini territoriali e diplomatici, in una specie di pareggio: l’Ucraina che vince solo perché non perde, la Russia di Putin che perde solo perché non vince. E’ questo, in sostanza, il senso di una frase come quella enunciata da Macron sull’attenzione a non umiliare la Russia. (Con un eccesso di ottimismo, anche: perché la dose di distruttività pura che Putin è in grado di scatenare ancora è pressoché sconfinata, e ha oltretutto il nome fatale di Odessa). 

Come che sia, bisogna reciprocamente concedersi il beneficio della sincerità. Io non saprei e non vorrei opporre alcuna obiezione a chi, accanto a me, mentre passo la mia cerbottana al soldato ucraino, ribadisse di non poterlo fare, e magari intanto si distinguesse per il soccorso offerto al soldato ferito. (Perfino in un’attività elementare come quella di fare l’elemosina per strada mi sono rassegnato a non diffidare sempre di chi ne teorizza il danno). Ma una frontiera decisiva separa la rinuncia ad armare chi si sta battendo ed è attaccato e più debole e chiede aiuto, dall’impegno attivo a impedire che quell’aiuto venga fornito da altri. Da chi voglia togliermi di mano la cerbottana. Da chi dichiari di non poter armare nemmeno l’aggredito, e si impegni a disarmarlo.

E poiché per oggi sono già stato troppo lungo, finisco con un esempio amarissimo, tanto più per chi, come me, sente ancora la magia delle memorie del valore. Sono successi in Italia, all’aeroporto pisano, al porto di Genova, forse anche altrove, episodi che si sono illusi di ravvivare quella magica memoria di solidarietà internazionalista del lavoro. Operai che si sono rifiutati di caricare materiale militare destinato all’Ucraina, secondo la deliberazione del Parlamento. Un boicottaggio attivo e ribelle dell’appoggio a quella difesa. Sono stati salutati, quei gesti, come una fedeltà al valore antico. Nell’adunanza romana sulla cosiddetta “Pace proibita” sono stati applauditi, e hanno ricevuto gli applausi con la coscienza, immagino, di un bel dovere compiuto. Negli stessi giorni, si è saputo che una cosa apparentemente simile era avvenuta in Bielorussia. Là ferrovieri e lavoratori di apparati logistici avevano sistematicamente sabotato i collegamenti ferroviari destinati al rifornimento delle truppe russe oltre confine, e in particolare la famigerata colonna di 70  km di mezzi militari alla volta di Kyiv. Per queste tipiche azioni partigiane clandestine – incendi di centraline, manomissioni di scambi ridotti alle operazioni manuali… – decine di lavoratori sono stati arrestati per tradimento, spionaggio, terrorismo… Azioni apparentemente simili, ho scritto. Non ho bisogno di spiegare perché sono agli antipodi.

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