Volontari scavano trincee a Kyiv (Ansa) 

piccola posta

Decidere o meno di armare Kyiv non fa di noi dei guerrafondai o dei pacifisti

Adriano Sofri

C'è una differenza tra "radicale" e "assoluto", e torna utile ricordarla in relazione al rifiuto della guerra. L'assolutismo del rifiuto della forza, fino alle armi proporzionate, implica l'abbandono di un principio fondamentale come quello della legittima difesa

Vorrei indicare poche sommarie conclusioni della discussione fra me e la mia amica Lea Melandri. La guerra è una caccia all’uomo – alla donna. Ma alla questione che ponevo, se una divergenza finale sia resa inevitabile dal fatto che lei è una donna femminista e io un uomo, posso per il momento rispondere di no, e non è poco. Anche da un’altra confusione, la più moralmente e sentimentalmente impegnativa, possiamo sgombrare il campo: che rifiutare o accettare di armare chi si difende da un’aggressione implichi una differenza nell’avversione alla guerra. Nessuna persona decente può partecipare di una discussione in cui la si accusi di essere in favore della guerra, guerrafondaio, bellicista e così avanti: di non desiderare che la guerra sia espiantata dalla faccia della terra. 

Lea non dice solo di essere contro la guerra: a differenza di Gino Strada, per esempio (“non sono pacifista, sono contro la guerra”: con lui ebbi un dissenso incompiuto) Lea si dichiara “radicalmente pacifista”. Riprenderei una differenza che era, mi pare, di Hannah Arendt, fra radicale e assoluto – lei la riferiva al male. Non per negare una radicalità alla convinzione di Lea, ma per segnalarne un’assolutezza, che le impedisce, o le risparmia, di misurarsi ogni volta di nuovo con la situazione concreta, con la sciagura che di volta in volta chiamiamo “guerra”. (E propongo intanto di mettere via la parola “interventista”, tanto più nell’opposizione “pacifista-interventista”. Sarebbe lecito usarla se significasse a sua volta un’assolutezza, se di fronte a ogni conflitto armato si rispondesse invocando un intervento militare).

L’assolutezza, il senza se e senza ma, fissano un apriori: so già che cosa farò ogni volta che un conflitto rovini nel ricorso alle armi e agli eserciti, regolari o no. Lo so a Sarajevo, o a Srebrenica, dove i massacri degli inermi e delle loro città possono durare anni, quattro anni, denunciati solennemente e inanemente dalle Nazioni Unite, fino a che un intervento militare di 14 giorni (della Nato, allora, 1995) metta fine alla guerra. Lo so in Ruanda, dove si compie in 100 giorni un genocidio milionario a colpi di machete. E così via. L’assolutismo del rifiuto della forza, fino alle armi proporzionate, implica l’abbandono di un principio fondamentale come quello della legittima difesa. Che vale tanto quando la minaccia e l’aggressione prendono di mira una persona quanto nei confronti di comunità e stati. Si può, certo, rinunciare alla legittima difesa: Lev Tolstoj esortava a farlo predicando la non resistenza al male. Si può, è molto difficile per tutte e tutti, difficilissimo anche per Tolstoj. E’ ancora più difficile quando si debba rinunciare a difendere non se stessi, ma il proprio prossimo, più debole, più inerme, più prescelto dalla sopraffazione. 

Nel 2001 scrissi una “Lettera alle donne invisibili”, mi ha fatto impressione rileggerla. Nella inesauribile controversia su questi temi di cui partecipo da tanto, persuaso che non abbia un traguardo se non in provvisori compromessi, mi dico che una buona parte della differenza sta nell’essersi trovati nel luogo e nel tempo in cui occorreva mettersi in un posto. Nei luoghi e nei giorni in cui non si tratta più di prevenire la guerra, in cui la guerra è scoppiata e infuria e si tratta di farla finire. Leggo: “Sono contro tutte le guerre, sempre e comunque, e chiedo: Anche nel Sinjar, quando l’avanzata travolgente dell’armata dell’Isis sta afferrando bambini e donne yazide, per farne piccoli soldati invasati e schiave sessuali e domestiche, separandole dagli uomini, per umiliarli e fucilarli?”. Quella “guerra” è durata più di due anni. Ragazze e donne yazide, fra loro qualche scampata al rapimento e ai tormenti, e non di rado anche al rischio del ripudio delle famiglie, hanno preso le armi, nella loro terra, nel Kurdistan iracheno, o insieme alle sorelle del Rojava. So che cosa avrei fatto – l’ho inadeguatamente fatto – se avessero chiesto di dar loro le armi. Succedeva lontano, ma non tanto. Vi ricordate che cosa ci diceva lo Stato islamico: “Conquisteremo Roma e le vostre donne”. Dicevano a noi, secondo loro. Da uomo a uomo.

Che si decida, ciascuna e ciascuno, di dare o no le armi agli ucraini che le chiedono (io lo farei), è praticamente irrilevante. Non abbiamo armi, è solo un modo di fare i conti con un problema grave, e di accapigliarci. Non è nemmeno, in una situazione così tragicamente angosciosa, una vera discriminante. Non si rompono amicizie per questo, né cooperazioni: sono tante le cose giuste da fare insieme. In Ucraina non si può invocare una “polizia internazionale”, nemmeno la più parziale e supplente. E la lezione, vecchia ma rimossa e solo ora squadernata, è che la nozione stessa di polizia internazionale si dilegua quando un giocatore mette sul piatto la sua testata nucleare. Dunque si torna al punto: un’aggressione, una strenua (sbalorditiva) volontà di difendersi e resistere, un desiderio che le armi tacciano. Ognuna, ognuno, avrà riconosciuto i suoi, e non in una sola parte.

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