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il foglio del weekend

Putin vuole uccidere l'infedele Ucraina

Adriano Sofri

Come a Srebrenica, uomini e donne divisi. “Sei stata mia e non andrai con nessun altro”. Nel conflitto ucraino c'è un corto circuito fra guerra e femminicidio

Cara Lea Melandri, vorrei proporti una questione: le divergenze fra te e me in un frangente cruciale come la guerra (più urgente ancora della pandemia, di fronte alla quale eravamo molto più d’accordo) sono anche il segno di un irriducibile resto della differenza fra te donna e me uomo? Che abbiamo pensieri e sentimenti più o meno discordanti è del tutto ragionevole e non di rado un piacere. Il mio dubbio è un altro: tu e io abbiamo avuto un lunghissimo tempo in comune, e l’abbiamo trascorso a volte da vicino, altre dandoci un’occhiata da più lontano. Potremmo aspettarci di arrivare, quando fischia il vento, a una conclusione comune – un compromesso almeno, visto che devono arrivarci governi popoli e persone che si stanno sparando addosso. Se non succede, forse è perché, alla fine, proprio come all’inizio, tu sei donna e io uomo. Sarebbe un fallimento.

Sono diventati chiari i modi più diffusi di misurarsi con questa guerra. Uno è quello di chi dice: “Sono contro la guerra”. E’ decisivo e futile: immagina che l’interlocutore, l’interlocutrice, sia “a favore della guerra”. Ma bisogna immaginare che anche il giovane o il padre di famiglia ucraino che oggi impugna la sua arma odii la guerra sopra ogni cosa. (Che poi “la guerra” trasformi a sua immagine chi la vive è problema grande, e i richiami di questi giorni a Weil o a Fenoglio sono raccomandati). Un altro modo, che è diventato il cavallo di battaglia dell’opposizione “argomentata” è il rimando alle ragioni remote della guerra, che hanno preceduto e preparato (e, per alcuni, giustificato) la decisione di Putin: l’espansionismo maligno o ottuso della Nato, la mortificazione della fierezza russa, la convinzione che la ribellione ucraina del 2014 sia stata un colpo di stato orchestrato da lontano... (Almeno di questo dovremmo diffidare: che una lunga, temeraria, sanguinante ribellione di giovani e di popolo sia il frutto di una cospirazione aliena. Chi l’abbia conosciuta, quella ribellione, è oggi molto meno stupefatto dalla resistenza strenua della gente ucraina). Argomenti degnissimi di attenzione: una loro gran parte era sfuggita a un pubblico, cui variamente apparteniamo, disabituato a seguire le febbri del mondo. Tuttavia questi argomenti sono almeno reciproci. Dalla parte di Putin stava un record di ferocia sbrigativa – dalla Cecenia alla Siria, alla liquidazione degli oppositori – e la rivendicazione di un programma, la rivincita dell’impero umiliato, che aveva per tempo annunziato di non tollerare l’esistenza dell’Ucraina. Come che sia, il rinvio alle “ragioni remote” non potrà mai superare la soglia irreparabile fra il confronto politico e il passaggio alle armi in quella che noi (Putin no) chiamiamo guerra. 

In questa sommaria catalogazione delle posizioni – che poi si invadono mutuamente – ne indicherei un’altra, che forse è tua (tu sai dirla come merita) e che sento anche largamente mia, ciò che rende più stimolante interrogarsi sulle conseguenze differenti. E’ la posizione che vede nella guerra – sempre e ancora – un culmine della formazione maschile, virile, termini che tendono a coincidere, e, rispettivamente, un culmine dell’estraneità femminile, e femminista. Non è l’antico verso della guerra invisa alle madri, che consacrava una divisione del lavoro, e che l’Ucraina di oggi sembra riconsacrare – la condizione di guerra infatti esalta la disuguaglianza di genere e ricaccia indietro la libertà. E’ una posta di questa guerra, come di tutte le altre spaventose guerre contemporanee che non a caso sono soprattutto guerre civili, cioè incivili, e investono il corpo delle donne, in carne e ossa e nel fantasma.

Foto EPA/MYKOLA TYS 

 

Giovedì sera ho sentito in televisione il giornalista, e militante, ucraino Vladislav Maistrouk dire, quasi per un’idea improvvisa, che l’ossessione di Putin per l’Ucraina somiglia a quelle di certi uomini per la ex moglie che hanno amato, al punto di ucciderla. Mi è sembrato un pensiero folgorante: l’Ucraina è mia perché lo è stata, e se non vuole essere più mia non sarà di nessun altro. Un corto circuito fra guerra e femminicidio: mai casus belli è stato più nitido. I richiami sessuali sono del resto disseminati quasi ingenuamente lungo la frontiera. L’adorno Kirill prende così sul serio il proprio patriarcato da proclamare la crociata contro la dissoluzione sessuale (la sua franchezza dovrebbe suonare come un allarme ai colleghi di altre confessioni). 

C’è, soprattutto, la divisione dei ruoli fra donne e uomini nell’Ucraina occupata. Leggo che le donne impegnate nella resistenza “militare” sarebbero una su dieci: non poche. Fra le altre, quelle destinate all’esilio prendendosi cura di bambini e vecchi sono un numero terribile: finora, se non fraintendo, le loro voci non si sono levate a scongiurare la resistenza del loro paese e del suo governo. In questi 15 giorni tremendi abbiamo visto con stupore la risolutezza e l’efficacia della resistenza militare ucraina, e con ammirazione i volti e le parole di tante donne ucraine. Ci siamo chiesti dov’erano – dov’eravamo: in molte nostre case, anche. Io detesto il nazionalismo, che ebbe una sua stagione fiorente ma contò moltissimo nel fissare l’immagine stereotipa della donna. Di questa Ucraina mi turba un nazionalismo deteriore, e mi colpisce il desiderio di indipendenza nutrito da tutt’altro che da una mitologia etnica. Che non vogliano tornare sotto la Russia persone nate da genitori russi e che hanno parlato prima il russo – nella pagella di Zelensky il voto meno brillante era quello in lingua ucraina. Non si deve campare di illusioni: ma c’è un’Ucraina di cui si può sperare un patriottismo costituzionale – ed europeo: l’Europa esiste soprattutto oltre il suo confine.

 

L’altra notte ti ho sentita a Fahrenheit, con Loredana Lipperini. Nella stessa puntata Daniela Brogi parlava del suo libro sopra “Lo spazio delle donne”, in quella improvvisa tragica attualità, di tutte quelle donne spostate – sfollate, profughe – che lasciano “il loro posto”, “il focolare”, che vi avessero o no uno spazio tutto per loro, agli uomini, decisi o costretti a restare, aspettando di battersi “casa per casa”. Hai visto che perfino i russi invasori rifiutano gli uomini in alcuni loro cosiddetti corridoi umanitari. E del resto il machismo più efferato è capace di distinzioni a suo modo cavalleresche: le donne si stuprano, gli uomini si ammazzano. A Srebrenica si separarono i maschi, dai ragazzi in su, dalle donne e i bambini, prima di passare alla macelleria. Alla radio avete parlato dell’appello di tante femministe russe, bel documento di intelligenza e di coraggio. Dice che “La guerra porta con sé non solo la violenza delle bombe e dei proiettili, ma anche la violenza sessuale... La guerra in corso, come mostrano i discorsi di Putin, è anche combattuta all’insegna dei ‘valori tradizionali’... Questi ‘valori tradizionali’ includono la disuguaglianza di genere, lo sfruttamento delle donne e la repressione statale contro coloro il cui stile di vita, autoidentificazione e azioni non sono conformi alle ristrette norme del patriarcato”. Dice anche che “la Russia ha dichiarato guerra al suo vicino. Non ha concesso all’Ucraina il diritto all’autodeterminazione né alcuna speranza di una vita pacifica. Dichiariamo che la guerra è stata condotta negli ultimi otto anni su iniziativa del governo russo. La guerra nel Donbas è una conseguenza dell’annessione illegale della Crimea... e il riconoscimento delle repubbliche dopo otto anni è stato solo una scusa per l’invasione dell’Ucraina”. Chiama a mobilitarsi “contro la guerra in Ucraina e la dittatura di Putin”. “Abbiamo bisogno che il mondo intero sostenga l’Ucraina e si rifiuti di aiutare in alcun modo il regime di Putin”.

Ho letto, grazie alla tua citazione, le pagine di Virginia Woolf dell’agosto 1940 (tradotte da Nadia Fusini) sui “Pensieri di pace durante un’incursione aerea”. Le tue parole erano rimaste sospese in un accostamento fra i piloti tedeschi e inglesi. Dice: “Su in cielo dei giovani uomini inglesi e dei giovani uomini tedeschi si combattono. Sono uomini i difensori, sono uomini gli attaccanti. Alla donna inglese non vengono consegnate le armi, né per combattere il nemico, né per difendersi. Lei deve giacere al buio disarmata stanotte. Eppure se crede che il combattimento in cielo è una battaglia tra gli inglesi per proteggere la libertà, e i tedeschi per distruggere la libertà, anche lei deve lottare, per quanto può, dalla parte degli inglesi. Ma come può lottare per la libertà senza armi da fuoco? ... Possiamo ‘fabbricare’ idee, che aiuteranno il giovane uomo inglese che combatte su in cielo a sconfiggere il nemico”. Dice anche: “Dobbiamo creare attività più onorevoli per chi cerca di dominare in se stesso l’istinto al combattimento, l’inconscio hitlerismo. Dobbiamo compensare l’uomo per la perdita delle armi”. (L’inconscio hitlerismo mi è sembrato un risarcimento anticipato alla dolorosa Sylvia Plath, “Ogni donna adora un fascista”; e quanti suicidi). 

 

In quello stesso 1940 di Virginia Woolf, Gandhi scriveva una famosa, tremenda “Lettera agli inglesi”: “Faccio appello perché cessiate le ostilità / contro la Germania nazista, /  non perché non siete più in grado di sostenere la guerra, ma perché la guerra è un male in assoluto... Invitate Hitler e Mussolini a prendere ciò che vogliono della vostra bella isola... Se vorranno occupare le vostre case, voi le abbandonerete. Se non vi lasceranno uscire, voi insieme alle vostre donne e ai vostri figli vi lascerete uccidere piuttosto che sottomettervi”. Anche Gandhi infatti, pur sensibile alla “bellezza del compromesso”, cedette all’assolutismo della nonviolenza – non si chiamava ancora senza se e senza ma, che mondo di incubo senza se e senza ma. Di fronte a un totalitarismo che dispieghi i suoi programmi (che “Putin non è Hitler” è certo, e non ha un disegno di genocidio razzista) la resistenza armata è necessaria. Ma la novità vera che l’aggressione all’Ucraina ha introdotto è equivalente all’aggressione storica dei totalitarismi, ed è il ricorso esplicito alla minaccia della bomba atomica (continuo a chiamarla così, che non perda il suo significato d’archetipo). La bomba atomica c’è da tre quarti di secolo. Dopo è rimasta disseminata, anche fra noi, ma sempre più rimossa, come tante altre cose intrattabili, certe scorie radioattive di cui non sapremo liberarci, certe parole impronunciabili. Ora ci sta fra i piedi. Ti propongo, Lea, di considerare la bomba atomica come il deposito materiale in cui culmina la storia dell’Uomo: il capolavoro del patriarcato che, uscito da lui, gli sta di fronte come un nuovo divieto nel rattoppato giardino dell’eden. 

C’erano tre minacce incombenti sul genere umano: il clima, la pandemia, l’atomica. Putin poteva maneggiarne una sola, e ci si è buttato. Ora, le donne hanno una forte ragione, seppur non intera, a dissociarsi dalla storia che è arrivata alla bomba e a rivendicarne un’altra direzione. Ma c’è. In Ucraina si sta decidendo come muoversi sotto quell’esplicito ricatto. La distanza fra No Fly Zone e fornitura di armi difensive sta lì, in bilico.

Dunque, perché tu e io non siamo d’accordo, nemmeno dopo ottant’anni che abitiamo questa terra? Guarda, se dovessi ricapitolare l’itinerario di un maschio (etero) del mio tempo direi così: che prima veniva la sfida del sesso come una messa alla prova della virilità, non granché per sé (ancor meno per l’altra), una sufficienza presa presso i propri simili; poi un’attenzione all’altra, al suo piacere e a una sua realizzazione, che era però ancora un arrotondamento meno rozzo della prova di sé; poi un desiderio della felicità dell’altra come condizione e compimento (parziale, incolmabile) della propria. Poi la memoria. Forse nella vicenda media di un uomo (etero) della nostra generazione, di una vita così lunga e così piena di cambiamenti vertiginosi, c’è un riassunto, o almeno uno spiraglio metaforico alla vicenda del rapporto fra l’uomo e la terra. Un uomo che abbia imparato ad amare, davvero saprà fare l’amore e non la guerra.

Io desidero dare un’arma di difesa – contro un tank, una batteria di artiglieria, un caccia – a chi è aggredito e rischia di soccombere. E, angosciosamente, mi dico che il negoziato che tutte e tutti dicono di auspicare non verrà se non grazie alla resistenza. A farci differenti è un’opinione, o anche e ancora, il tuo esser donna e il mio essere, ed esser stato, uomo? 

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