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Si parli della Bomba. Ammettere la paura è condizione per non cadere nel panico

Adriano Sofri

La suggestione di un Putin riluttante all’inverno nucleare dopo il bagno di folla allo stadio, e il monito opposto: messo alle strette, un autocrate è pronto a tutto

Marina Ovsyannikova. E poi: dice il New York Times che Biden è in Europa anche per decidere come risponderà l’alleanza se la Russia utilizzerà armi chimiche, biologiche, informatiche o nucleari. Non lo sanno ancora? Voglio trattare proprio della questione nucleare – della Bomba. E intanto, prima dell’assuefazione, voglio ricordare la peculiare codardia dell’aggressione di Putin. Rompendo un tabù che, non privo di crepe, aveva comunque resistito, Putin aveva ricordato che la Russia è una grande potenza nucleare, e messo in allerta il suo sistema di deterrenza nucleare. Con questo ricatto si era assicurato l’astensione della Nato e dei suoi singoli stati da ogni intervento aereo, raddoppiando così la supremazia schiacciante in armamenti e uomini con la padronanza esclusiva del cielo. La bravata di un vile, che ha mortificato i suoi stessi uomini.

Da quando la guerra è cominciata, il richiamo alla Bomba le è stato sospeso sopra. Per lo più, abbiamo parlato d’altro. Qualcuno ha ammonito che accettare di parlarne avrebbe già segnato una complicità nella rottura di quel tabù. O, semplicemente, l’ha rimosso per esorcizzarlo. Un rinomato esperto di strategia nucleare, l’amburghese dottor Kühn citato ieri dal New York Times, si scusa quasi: “E’ orribile parlare di queste cose”. Poi aggiunge: “Ma dobbiamo considerare che questa sta diventando una possibilità”.

E’ saggio invece affrontare la cosa, e metterla a confronto con la nostra comune conversazione. Dire che abbiamo paura, che è la premessa, e al tempo stesso la condizione per non promuoverla a panico. Ho avuto paura ogni notte, e me ne sono fatto condizionare nelle inutili posizioni che prendevo, così come i responsabili politici e militari se ne fanno condizionare nelle loro effettive decisioni. I miei criteri sono però diversi, sebbene sia io che gli strateghi di professione ricorriamo variamente alla psicologia. Quando ho visto Putin nella pacchiana adunata oceanica dello stadio ho pensato che sarebbe stato più riluttante all’inverno nucleare ora che si era guadagnato quel piumone Loro Piana. Il problema infatti si aggrava quando un autocrate come Putin tema di non aver più niente da perdere. Mentre pensavo futilmente così, gli esperti di strategia dicevano il contrario: che, messo alle strette dalle sanzioni e dalla resistenza sul campo degli ucraini, Putin diventava sempre più tentato di ricorrere alla Bomba, sia pure nelle versioni aggiornate che l’hanno resa più domestica e presentabile. Dicono anche, gli esperti, che “i russi non fanno le distinzioni che facciamo noi sulle armi nucleari”. Non vanno tanto per il sottile, diciamo.

Ieri c’era questo ottimo articolo sul New York Times. Ricordava che Stati Uniti e Russia avevano, dopo quel 1945, potenziato i rispettivi ordigni fino a sperimentarne uno mille volte più potente di Hiroshima gli Usa, e tremila volte l’Urss. Tremila Hiroshima in un colpo solo, bisogna chiudere gli occhi e lo stesso non si riesce a immaginare. Da un certo punto in poi si è invece lavorato a ridurre la potenza delle bombe H e ad accrescere gittata e precisione dei vettori. Ora ci si può congratulare di una gamma vastissima che arriva a bombe del due per cento di Hiroshima – gingilli da quartiere. Di simili atomiche tattiche i russi ne avrebbero duemila, gli americani, in Europa, un paio di centinaia. Oltretutto i congegni nucleari “tattici”, miniaturizzati, non strategici e così anestetizzando, sono esclusi dai trattati sul controllo degli armamenti, che ebbero una stagione fruttuosa e poi decaddero in fretta.

Bisogna credere che in ogni ora dell’ultimo mese i massimi responsabili degli armamenti nucleari degli Stati Uniti e della Nato siano stati impegnati a esaminare tutti i rischi – per loro non può valere l’esorcismo che vale per i comuni mortali (che bello riscoprire a un tratto il significato pregnante del nome di mortali): mosse di Putin, risposte proporzionate, quanto, come, quando. Dove, anche: delle testate nucleari si prospetta un uso da avvertimento, su luoghi non popolati o su basi scelte come un poligono di tiro, per mostrare al nemico quanto male si è in grado di fargli la prossima volta, se non la smette. Il problema poi è lì, come smettere una volta che si sia cominciato. Il NYT scrive che “non è chiaro come Biden risponderebbe all’uso di un’arma nucleare da parte di Putin. I piani di guerra nucleare sono uno dei segreti più profondi di Washington”. Se ne parlo io, del tutto profano, ma sul punto il divario fra me e Carlo Rovelli tende ad azzerarsi, è solo per segnalare la distanza cruciale fra l’ambito delle nostre conversazioni e discussioni e il contesto nel quale può precipitare la nostra vita. Qualcuno, qualcuna, può dover decidere se e come rispondere a una esplosione nucleare russa sopra Kyiv o Kharkiv. Sarebbero generali, presidenti, persone dalle quali, a occhio, non compreremmo un tostapane usato. Ma, anche a non considerare l’impossibilità materiale, la gara col tempo e tutte le meraviglie che succedono nei film, se in una simile circostanza si potesse decidere democraticamente, se la valigetta fosse in mano della maggioranza delle elezioni, dei referendum, dei sondaggi e dei social, andrebbe meglio? 

Devoto come sono del metodo democratico, devo ammettere che le cose che gli esseri umani hanno prodotto stanno di fronte a loro e sopra di loro come potenze inesorabili e intrattabili, quando la situazione abbia superato certi limiti, così da eccedere ogni capacità di democrazia diretta e perfino indiretta, e mettano in mano a gentucola qualunque, senza nemmeno un previo esame attitudinale, il destino di una terra o della terra. Situazione senza rimedio, al momento – che Dio ce la mandi buona – e, caso mai, al di là del momento, tale da far pienamente rivalutare la vicinanza fra la politica e la medicina preventiva, unita a un’abilità da sminatori. Questione di vita o di morte. Sulle strade dei cortei di pace i cartelli avvertano, in tutte le lingue: “Attenzione: terreno minato”. 

E ora incamminiamoci alla volta di Kyiv.

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