Ritratti di vittime della violenza di genere a Santiago, Cile (Lapresse) 

piccola posta

Molte donne denunciano in ritardo le violenze subite. Molti uomini le compiono senza dirlo mai

Adriano Sofri

È sul silenzio che gli uomini contano da sempre. Ma il tempo e la maturazione della conoscenza di sé possono vincere la vergogna e la paura delle vittime

Un uomo, cioè un maschio, almeno se sia abbastanza avanzato negli anni, non ha bisogno di leggere statistiche e inchieste sulle violenze contro le donne attuate o tentate, e le molestie inflitte, per avere un’idea della loro diffusione. Ha avuto il tempo per misurare se stesso, per essere testimone diretto, per ascoltare racconti o allusioni. Per accumulare un numero ingente di conoscenze su come va il mondo. E’ in grado di immaginare che ragazze o donne aggredite da sconosciuti siano più pronte a cercare aiuto e denunciare.

 

 

Che le vittime di violenze di famigliari, di partner o ex partner, di “amici”, di colleghi di lavoro o di servizio, e anche di conoscenti casuali con i quali si è accettato di condividere un’occasione, siano molto più esitanti a denunciare e cercare aiuto. Per paura fisica di ritorsioni. Per paura di non essere credute. Per paura di essere sospettate di aver scherzato col fuoco, di essere state imprudenti, di aver fomentato comportamenti che poi hanno passato il segno… Per paura di ferire i sentimenti delle persone care. Per la vergogna, perché ci si vergogna specialmente delle azioni vergognose altrui, e perché si può dubitare di sé e accusarsi anche quando si è solo subita una sopraffazione. E ancora.

 

Questa congerie di situazioni, diversa dall’aggressione fisica brutale di uno sconosciuto, costituisce senz’altro la stragrande maggioranza delle violenze e delle molestie subite da bambine, ragazze e donne. E’ del tutto comprensibile che in un gran numero di casi – la gran maggioranza, in tempo di pace – le donne che ne sono state oggetto serbino per sempre il silenzio, o lo rompano solo per ammettere genericamente di aver anche loro sperimentato qualche violenza o molestia, senza far menzione di circostanze, luoghi, date, nomi, modi. Del resto è su questo silenzio che gli uomini hanno da sempre contato: vergogna e paura delle vittime sono lo scudo dietro cui si ripara la viltà e la vergogna dei violenti e degli insinuanti. E’ altrettanto comprensibile che il tempo, la maturazione della conoscenza di sé e degli altri, la scoperta di poter rompere la propria solitudine, di riconoscersi in tante altre, di rigettare l’infamia di accusarsi di una complicità in ciò che hanno subìto e di sentire nemico e traditore il proprio stesso corpo – è comprensibile dunque che la distanza di tempo sia una condizione essenziale per dire ciò che si è tenuto lungamente chiuso e segreto. E per sentirsi, al contrario, partecipi: “Anch’io”.

 

 

Così, più o meno, ogni uomo, ogni maschio che abbia un certo numero di anni non può non immaginare la cosa. Senza aggiungerle la meschinità di ridurla a una dimensione giudiziaria. La denuncia di uno stupro subìto o tentato dev’essere presentata, per il codice italiano, entro un anno: bene, ma è solo un dettaglio della questione. Il centro della questione è la vergogna. Più esattamente, il trasferimento della vergogna dalla vittima della violenza al suo autore. Dalla donna all’uomo. E dalla vergogna intima a quella pubblica. In questo passaggio non sta forse un rischio? Che il millenario pregiudizio maschilista si rovesci nel suo contrario? Che fanatismo, vanità, gregarismo, spingano a fare dell’uomo un imputato a priori, dimezzato o privato dei diritti di difesa? Certo. Bisogna far argine, custodire il rispetto di sé. Il vero ostacolo non sta nelle donne militanti.

 

Le statistiche, anche le più sobrie, contano milioni e milioni di ragazze e donne che dicono di aver subìto violenze sessuali o fisiche o molestie o vessazioni psicologiche e discriminazioni. Poiché a compierle o tentarle sono stati uomini, di tutte le età, e poiché, se non m’inganno, non esistono statistiche complementari, i milioni e milioni di uomini che hanno commesso o tentato stupri, violenze fisiche o psicologiche, molestie eccetera, non l’hanno detto, salve singolarissime eccezioni (e non sono eccezioni le circostanze di spogliatoio o di caserma in cui agli uomini piace vantarsene – sempre meno del resto, perché il nemico è in ascolto). Non l’hanno detto né spiegandolo, né facendovi allusione. Né entro un anno, né entro cinquanta. In tribunale contano i diritti della difesa. Fuori, a meno che ci si auguri un orribile auto da fé, una quaresima confessionale, si tratta di capire, di capirsi. Com’è fatto, come viene fatto, un uomo. E che cosa lo rende tristemente diverso, e che cosa può renderlo felicemente diverso.

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