Mostra "Sergio Staino: un racconto di Berlino 1981" (Ansa) 

piccola posta

L'arte del non finito e la perfezione perduta

Adriano Sofri

Il tratto degli artisti più longevi diventa nel tempo meno netto, più esitante, ma anche più vivo. Come è successo a Staino, per il piacere di noi aspiranti critici d'arte

Vorrei fare il critico d’arte. Chi non vorrebbe fare il critico d’arte? Ve ne do un piccolo saggio, e mi raccomando, leggete fino in fondo. Si tratta di Sergio Staino, disegnatore e pittore. Nel suo stile si riconoscono diversi periodi e altrettante svolte. La prima, attorno al 1977, quando la retina cominciò a cedere e lo tenne a lungo in un ospedale triestino. Quando uscì dal buio, il suo tratto era diventato meno netto, più esitante, ma anche più vibrante e vivo. La seconda quando la vista aveva ceduto troppo e lo costrinse a ricorrere al computer. Temette di perdere il corpo a corpo con la materia, la matita, la penna, la carta, e la resistenza che oppongono all’intenzione della mano. Lo schermo digitale sembrava rinviare all’infinito, ma anche là scoprì piano piano che il disegno si procurava le sue variazioni e le sue impronte personali. 


Del resto, è quello che è successo a tanti artisti longevi, risarcendo una perfezione perduta con una sprezzatura sovrana, Daumier, per esempio, dice, o il meraviglioso vecchio Tiziano. Ecco che mi arriva un nuovo volume illustrato da Staino (bello, coi testi di Sergio Secondiano Sacchi che raccontano, con il cd delle canzoni care alla sua Barcellona e al nostro Club Tenco, “Storie e amori d’anarchie”, squiLibri). Sfoglio le tavole della terza maniera, chiamiamola così, finché mi imbatto in pagine disegnate in modo del tutto inedito, le figure rarefatte all’estremo, appena abbozzati i contorni, quasi senza sollevare la mano, quasi una sigla. Come buttate giù a occhi chiusi a una fila di ammiratori che aspettano una dedica. Chiamo Staino per congratularmi: ti sei liberato di ogni residuo di convenzione, dico, hai veramente toccato l’anarchia creativa… “Non me ne parlare – mi interrompe – gli avevo mandato degli schizzi solo perché calcolassero gli spazi fra testi e disegni, e li hanno stampati come se fossero già destinati alla pubblicazione”. 


Mi piace, questa storia. Segna la fine della mia carriera di critico d’arte. Ma anche una lezione sulle vicissitudini del non finito. E poi è bello immaginare i curatori del libro che, passati dalle tavole elaborate alle due o tre scarabocchiate alla svelta, si saranno detti: “Guarda Staino come si vendica della cecità e lascia che la mano libera disegni come farebbe un bambino”. E volete che, con un pensiero così, quei curatori cercassero Staino per dirgli: Scusa, ma le tavole tale e tale sono proprio così come le hai mandate?

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