Giancarlo Coraggio, presidente della Corte costituzionale (foto Ansa)  

piccola posta

Sull'ergastolo la corte ha letto la Costituzione, ora non si perda tempo

Adriano Sofri

Il Parlamento deve affrontare ora l'incostituzionalità dell'ergastolo senza scampo. Ma c'è il rischio che non se ne faccia niente, o se ne faccia qualcosa di grottescamente cavilloso

Nessuno poteva dubitare che l’ergastolo cosiddetto ostativo fosse incostituzionale. Nessuno che sia capace di leggere l’articolo 27 della Costituzione, nella frase che dice: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. (La Corte costituzionale le ha aggiunto l’art. 3, dove dichiara tutti i cittadini uguali davanti alla legge). Pronunciamenti precedenti della stessa Corte, sui permessi agli ergastolani “ostativi”, e della Corte europea dei diritti dell’uomo avevano già segnato la strada. Alla vigilia – lunga, protratta – della decisione della Corte, si erano accanitamente spese fame meritate o usurpate di nemici della mafia, forti soprattutto dell’argomento che fa dei fedeli alla Costituzione, e soprattutto alla concezione che la ispira, altrettanti complici della mafia. Piuttosto spiritosamente, un giurista di peculiare competenza aveva segnalato, giorni fa, lo zelo che attribuiva una “disinvolta inconsapevolezza dell’estrema insidiosità del fenomeno mafioso, da cui sarebbero affette, secondo una certa vulgata, Corte europea dei diritti dell’uomo, Corte di cassazione, Corte costituzionale, Avvocatura dello stato, nonché magistratura di sorveglianza e accademia”. 

 

 

Dunque la Corte costituzionale, dichiarando incostituzionale l’ergastolo detto ostativo, non ha fatto che leggere la Costituzione. Il cuore della sua pronuncia investe la condizione esclusiva che la legislazione di emergenza fissa alla inesorabilità dell’ergastolo: la “collaborazione”. La “collaborazione”, anche se la memoria dei suoi significati sembra essersi perduta, può essere uno strumento sporco e prezioso per combattere e punire il crimine, ma non è affatto il criterio del “ravvedimento” né della “rieducazione” né della “risocializzazione”. L’eredità sciagurata della categoria del “pentimento” pesa su questa norma che si vuole tassativa. Il “collaboratore” può avere un’anima di criminale ancora più falso e indurito, e il non collaboratore può avere oltre che motivazioni esteriori cogenti – la difesa dei propri dalle rappresaglie, o la mancanza di cose da svelare e così via – il rifiuto di accusare quando non ci sia più una minaccia da sventare. La “collaborazione” obbligatoria è una lusinga e un abuso della coscienza. Sono altri, e ben più impegnativi, i modi di valutare il cambiamento delle persone, e i ripari dagli inganni.

 

 

Ed ecco che, nel momento in cui dichiara ciò che era evidente, l’incostituzionalità dell’ergastolo senza scampo, la Corte proroga di un altro anno la pratica incostituzionale e passa la mano al Parlamento. Voglio immaginare che non si tratti di pusillanimità, di una concessione fatta agli anatemi dei professionisti e all’opinione incattivita. Né alla dolorosa sensibilità dei prossimi delle vittime dei reati implicati (non sempre e solo di mafia), consacrata e stravolta nella frase: “L’hanno ucciso un’altra volta”. Penso che nella Corte abbia prevalso, a differenza che nel “caso Cappato”, del suicidio assistito, solo apparentemente simile, una scelta filosofica, per così dire, di filosofia morale: il gradualismo. L’attenzione, cioè, a raggiungere un traguardo, che pure si è fissato senza incertezze, dolcemente, così da evitare il contraccolpo di una rottura brusca. Di temporeggiare e accompagnare l’attuazione, come si fa in una premurosa e paziente riabilitazione dopo una frattura. Magnanima scelta, non vile. Adeguata, efficace? La Corte è fatta di persone che conoscono il mondo, basta vedere con quale libertà e saggezza si esprimono quando emeritamente ne escono. Non cade dalle nuvole. Non quando il partito maggioritario nei sondaggi commenta la sua ordinanza proclamando che non se ne parla nemmeno, “di mafiosi e assassini” (sic!), così proclamando nullo e destituito il massimo organo di controllo della legittimità democratica. La stessa svelta decisione di ignorare la raccomandazione della Corte esprimono i notabili del primo partito del parlamento vigente, con la competenza che è loro peculiare e che ha messo nelle loro mani destre e sinistre il governo della giustizia negli ultimi anni. Quanto al principale partito d’opposizione del vigente governo, non occorre dire. La Corte ha passato a un Parlamento affollato alla rinfusa sui ponti di un naufragio una patata bollente, una bomba a orologeria, o qualunque altra formula convenga al gergo corrente, sapendo che il parlamento: o non ne farà niente, e l’anno che sarà trascorso non avrà anestetizzato l’operazione da completare; o ne farà qualcosa di grottescamente cavilloso, ridicolizzando sé e la Corte; o semplicemente si scioglierà prima che l’anno scada. 

 

In tutto ciò, l’attenzione è stata ancora una volta deviata sull’eccezione italiana, la criminalità organizzata, le mafie, la mafia. In Italia la legge è uguale per tutti, tranne i mafiosi. La Costituzione, ha detto ieri un notorio magistrato, non poteva prevedere che si sarebbe dovuto fronteggiare la mafia. I padri e le madri costituenti, infatti, erano reduci da una vacanza al mare di una ventina d’anni, genocidi guerra mondiale e guerra civile compresi. La questione vera, l’insopportabilità di una pena legale che pretende di dire l’ultima parola, è semplicemente elusa. Perfino nella situazione paradossale italiana in cui gli ergastoli detti ostativi sono la maggioranza, dunque la norma e non l’eccezione. 

 

Ci sono paesi dall’orribile pratica penale e penitenziaria, come gli Stati Uniti, in cui è in vigore la pena di morte, e un ergastolo che esclude ogni attenuazione – tombale. Là, la degradazione all’ergastolo senza condizionale può essere un passo verso la riduzione o la moratoria o il ripudio della pena di morte: tutto è prezioso sulla soglia della camera della morte. Questo non può impedire di vedere l’affinità fra la pena capitale e l’ergastolo senza scampo, la pena di morte differita e distillata. Quando un ergastolano implora per sé la morte piuttosto che l’agonia interminabile – il fine pena mai, il fine vita protratto, la tortura perpetua – sta testimoniando di una spietatezza che contagia i suoi simili che si sono voluti così irreparabilmente dissimili. Di questo si tratta, non di “mettere in libertà i boss stragisti” (un titolo di ieri).

Di più su questi argomenti: