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L'Afghanistan "restituito agli afghani", dove si confondono coraggio e viltà

Adriano Sofri

Il paese sta in quella vigilia, un istante prima della vendetta dei talebani, un istante prima che venga scagliata la pietra della lapidazione su inermi e perseguitati

La violenza contro le donne (e gli animali) sta alla radice della violenza degli animali umani. Ed è la situazione nella quale i due connotati opposti, coraggio e viltà, coincidono teatralmente. L’uomo – il vigliacco – che picchia la “sua” donna, o la donna “di tutti”, è tipicamente virile. Una faticosa trafila poetica provò a raddrizzare il tiro facendo dell’uomo valoroso il paladino della debolezza femminile: debolezza che la cavalleria confermava. 
La sproporzione, materiale e culturale, nell’esercizio della violenza fra i sessi resta colossale anche dove più forte è il progresso dei costumi, comunque la si misuri: i posti percentuali occupati da donne che hanno ucciso uomini, o da donne detenute, sono incomparabilmente più bassi di quelli occupati da donne nei consigli di amministrazione. Se prendiamo un altro caso esemplare di coincidenza fra viltà e pretesa di audacia virile, la violenza “di branco”, o quella della folla, ritroviamo quel contenuto fondante.

L’Afghanistan restituito “agli afghani”, cioè, oggi, ai talebani, è il luogo doppiamente esemplare, del vanto del coraggio virile e della metodica violenza su bambine e donne, ora resa più accanita dall’ansia di vendicare l’oltraggio di una parziale loro liberazione. Certo è assurda una guerra internazionale dei vent’anni in una repubblica islamica asiatica di nemmeno 40 milioni di persone. Vent’anni fa si rispondeva all’11 settembre. Siccome non si stana e uccide Bin Laden mettendo più di 100 mila soldati sul campo, si evocò l’effetto collaterale della liberazione dal carcere duro domestico delle donne afghane. Domenica, l’altroieri, Farhad Bitani, l’autore de “L’ultimo lenzuolo bianco”, intervistato da Maria Cuffaro, raccontava che solo qualche giorno fa a una ventina di chilometri dalla base militare italiana di Herat c’era stata la fustigazione pubblica di una donna: lo diceva perché immaginassimo che cosa sarà quando le forze internazionali avranno lasciato il paese. Ospite a Herat, visitai il famoso carcere femminile finanziato dagli italiani (molte cose notevoli facevano quelle e quegli italiani in divisa) e adibito a rifugio per le donne minacciate di morte dai “loro” uomini. E’ terribile annunciare una protezione a inermi e perseguitati e poi lasciare il campo. Chi voglia può trovare in rete i video delle lapidazioni pubbliche in Afghanistan (e non solo) e istruirsi sulle modalità delle pietre da scagliare: non troppo piccole che non facciano male non troppo grandi che abbrevino il supplizio.

Il libro importante di Peppino Ortoleva “Sulla viltà” (Einaudi) ricostruisce la “virtù maschile” del coraggio e l’autoindulgenza verso il “delitto collettivo”, la folla assassina che perde la testa, come nel linciaggio, e la mattina dopo si rivendica anonima e dunque irresponsabile. “La folla che aggredisce è insieme istigatrice all’azione e riparo dentro cui rifugiarsi”. Ebbene, quel meccanismo ha la sua scena madre nella lapidazione dell’adultera che Gesù sventa in extremis. Quella piccola folla aspetta solo che parta la prima pietra, a scagliarla potrà essere il più vile, fatto forte degli altri che lo spalleggiano, o il più ardito, quello che prende l’iniziativa, e potrà essere la stessa persona: è la prima pietra che occorre fermare, perché fra un istante diventerà la furia della gragnuola. Prima del commiato ortodosso del “non peccare più”, Gesù interrompe la legge, e la tradizione più forte della legge, vecchia “come il mondo”, e per farlo inventa il più azzardato degli espedienti: scarabocchiare per terra, attirare l’attenzione per distrarla dalla sventurata, riportare gli invasati della sassaiola a individui sconcertati che si interrogano l’un l’altro su quello stravagante. E fra un momento si interrogheranno, ciascuno, se sia senza peccato, e che cosa voglia dire davvero, e se ne andranno vergognandosi. La prima pietra della lapidazione è come una precipitazione chimica: c’è un breve fermo immagine dentro il quale può insinuarsi una difesa, una deviazione, un interdetto. L’Afghanistan sta in quella vigilia. Le forze di occupazione militare non sono Gesù, e conoscono esse stesse la complicità deresponsabilizzante nella violenza e la viltà della strapotenza. Ma la concretissima, sporchissima scena afghana riproduce sulla scala dall’uno ai milioni la radice in cui si confondono coraggio e viltà, degli antichi e dei moderni.

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