Foto di LaPresse/Reuters

Le teorie che circolano a Baghdad sul presunto accordo Trump-Abadi

Adriano Sofri

Intanto Moqtada al Sadr riporta in piazza i suoi seguaci 

Ieri, nel venerdì di festa, il capopopolo sciita Moqtada al Sadr ha riportato in piazza le sue centinaia di migliaia di seguaci della Baghdad diseredata. Ha tenuto la sua collaudata arringa contro i corrotti di ogni provenienza, contro il governo e la commissione elettorale – si voterà in Iraq quest’anno per i governi locali e il prossimo per le elezioni generali. Ha detto che potrebbe essere assassinato o messo comunque a tacere ma che la sua moltitudine non dovrà smettere di tenere la piazza. Ha chiamato il proprio programma “rivoluzione della riforma”, che dovrà avvenire attraverso la prevalenza nelle urne, una volta ottenuto un sistema elettorale pulito: senza di che il suo movimento boicotterà le elezioni. Ci sono stati scontri con la polizia ma, fino al momento in cui scrivo, senza vittime. Lo scorso febbraio manifestazioni analoghe avevano fatto parecchi morti. Intanto, dopo l’incontro fra il primo ministro Abadi e Donald Trump, circolano “interpretazioni autentiche” del loro supposto accordo, prive di qualunque verifica e anzi fantasiose, ma significative della ostilità delle fazioni sciite che si sentono più emarginate. Oltre a includere l’Iraq nella sua travagliata lista dei paesi banditi, Trump aveva cominciato col dire fuori dai denti che “l’Iraq non è uno stato”, e che l’unica cosa buona che gli Stati Uniti avrebbero dovuto fare all’esito della guerra d’Iraq era di prendersi tutto il petrolio.

 

L’“interpretazione autentica” circolata ieri sui social media sostiene che l’accordo fra Trump e Abadi si componga dei seguenti punti: 1. L’intera commercializzazione del petrolio iracheno dovrà essere gestita da compagnie americane; 2. Le milizie sciite Hashd al Shaabi, la “Mobilitazione Popolare”, saranno sciolte; 3. Se la liberazione dei territori ancora occupati dall’Isis dovesse segnare il passo, gli Stati Uniti interverranno massicciamente con forze di terra; 4. Gli americani potranno installare basi militari in Iraq dovunque sembri loro opportuno; 5. Sarà vietato il passaggio di armi e uomini armati tra l’Iran e l’Iraq; 6. Le forze americane saranno libere di attraversare il confine fra Iraq e Siria senza bisogno di autorizzazioni o preavvisi.

 

Così formulato, il programma Trump-Abadi è piuttosto immaginario. Quanto alla sua fattura, potrebbe risultare sia da un wishful-thinking curdo che da un ufficio di propaganda vittimista sciita-malikiano. Un monopolio americano sul petrolio dovrebbe fare i conti anche con le grandi compagnie non americane; non dispiacerebbe ai curdi, che vogliono svincolare da Baghdad il proprio sovrabbondate petrolio e gas, ma non hanno una capacità adeguata di gestione in proprio. Inoltre, l’Iraq si trova in una situazione debitoria fallimentare. Ed è di ieri la notizia sull’autorizzazione del Dipartimento di stato all’acquisto iracheno di un’ulteriore fornitura di armi americane per ben 22 miliardi di dollari, da ripagare in 12 anni. Le milizie sciite in un certo senso sono già “sciolte”, il senso più loro favorevole e furbo, perché se ne è decretata l’inclusione dentro le forze armate regolari. Scioglierle davvero e reciderne il cordone ombelicale con l’Iran varrebbe a prevenire la più minacciosa delle guerre post Isis, quella sciita contro i peshmerga curdi per i territori “contesi”, che i curdi ritengono ormai acquisiti, a cominciare da Kirkuk. Ma ci vorrebbe ben altro che un incontro fra Trump e Abadi per far fuori l’Iran dall’Iraq. Infine, un maggiore impegno di truppe americane sul terreno, oggi nella guerra all’Isis e per il futuro nella creazione di basi permanenti, è già un fatto – lo era già, con juicio, con Obama – e lo sarà di più di fronte alle pressioni opposte e infide di Iran e Turchia. E c’è Mosul, appena entrata nel penultimo dei suoi gironi infernali.

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