La furia suicida di Mosul
Nella battaglia decisiva non ci saranno trattati di pace. È una guerra di annientamento in cui i miliziani dello Stato islamico possono solo essere uccisi o farsi esplodere. Reportage dal fronte
Mosul, dal nostro inviato. Diceva il generale americano Eisenhower che “la guerra è vinta quando i miei soldati fanno la guardia al tuo palazzo presidenziale”. Oggi si può fare una parafrasi di quella vecchia citazione e dire che la guerra allo Stato islamico è quasi vinta quando i giornalisti lavorano di nuovo a Mosul ovest, che è la zona più infestata dallo Stato islamico nella città più infestata del paese più infestato. Mentre si aspetta che un blindato iracheno arrivi a coprire l’avanzata tra i palazzi sventrati di Dawasa, dove corre la linea del fronte e dove c’è la chiesa appena liberata di Santa Maria del Perpetuo Soccorso, un fotografo francese del Monde ride: “Voi italiani, sempre a cercare chiese”, dice al riparo di un muro. “Noi in realtà si voleva fare filmare un negozio di baguette, ma non ce ne sono a Mosul”. Per arrivare alla chiesa si corricchia a fianco del blindato per mezzo chilometro, in modo da non farsi vedere dai cecchini dello Stato islamico. Accanto al blindato ma sempre in mezzo alla strada e mai a lato della strada, perché la regola dice che non si mettono mai i piedi dove nessuno è ancora passato.
Lo Stato islamico ha cecchini temibili, alcuni sono russi e sono i protagonisti di un video prodotto dal gruppo di Mosul in cui fanno strage di soldati e ufficiali e mostrano i colpi alla moviola. Il filmato faceva parte di una serie di video di propaganda messi online tra novembre e dicembre, e ciascuno presentava una minaccia specifica contro gli invasori: c’erano i tiratori scelti, c’erano le squadre che sparano con i missili controcarro e distruggono i corazzati, c’era l’esercito di volontari pronto a farsi saltare in aria in nome di Abu Bakr al Baghdadi, c’erano persino i droni che lanciano granate. Ma nella metà sud del quartiere di Dawasa tutta questa ferocia militare non è servita a nulla, non è riuscita a tenere il territorio, si è sfatta nel giro di una settimana di attacchi da terra e di bombardamenti aerei e ora cadaveri e pezzi di guerriglieri baghdadisti giacciono dove l’onda d’urto delle bombe li ha gettati. Ce ne sono tre davanti alla chiesa, uno separato dalle sue gambe – che sono assieme poco più in là – e sul muro accanto al portoncino d’ingresso con la croce c’è la scritta fatta con una bomboletta spray: “Vietato l’ingresso per decreto dello Stato islamico”. Dentro la chiesa è uno sfacelo, ma è più probabile che sia stata la guerra che non l’occupazione di quasi tre anni. Un proiettile di mortaio da 80 mm è appoggiato per dritto sull’altare, in segno di scherno. Sulle colonne di marmo della navata lo Stato islamico ha attaccato con lo scotch i suoi manifesti colorati in bella carta lucida. Per tragica ironia, uno di questi manifesti è la Carta di Medina, scritta dal profeta Maometto nel 622 dopo Cristo per regolare la vita dei diecimila abitanti della città-stato di Medina, che disciplina tra le altre cose anche la convivenza tra religioni diverse. Appena fuori dalla chiesa, i colpi di mortaio sparati dall’esercito iracheno salgono in cielo e descrivono una breve parabola sopra l’edificio con una nota ascendente, fwaap, che dà sollievo – vuol dire “è un colpo in uscita, è dei nostri”, non sta cadendo su di noi – e piomba cento metri verso nord sulle teste dello Stato islamico, a spezzare il silenzio di una pausa nei combattimenti. La Carta di Medina è stata definita “la prima Costituzione scritta al mondo”, ma qui, tra blindati e strade deserte e pezzi di corpi, si sente l’evidente bisogno che sia discussa e interpretata in accordo con i tempi moderni.
Per spiegare in poche parole cosa ha fatto lo Stato islamico tra il 2014 e il 2017 si potrebbe dire così: “Un’ondata suicida di gioventù islamista, affascinata da cattivi maestri, ha chiesto a gran voce di essere sterminata. La sua richiesta, dapprima con riluttanza poi con maggiore disinvoltura, è stata accolta”. Il seguito di questa premessa è la battaglia per Mosul che si sta combattendo da ottobre. Da qui, da questa città nel nord dell’Iraq, lo Stato islamico aveva lanciato una sfida troppo ambiziosa, una sfida che non poteva vincere e che era tutta centrata sulla resurrezione del Califfato e sulla sua espansione. Pur di ottenere queste due cose aveva minacciato di fare la guerra a tutto il mondo – letteralmente “a tutto il mondo”, che è uno dei motivi per cui è necessario ascoltarli: perché sono specializzati nel parlare e ragionare in modo letterale. Dopodiché la setta si era trincerata dentro Mosul, ad aspettare una reazione militare che prima o poi sarebbe arrivata. I suoi adepti avevano attaccato per primi e con odio trasversale non avevano lasciato nessuno fuori dalla lista dei loro nemici: c’erano l’America e la Russia, la Turchia e i guerriglieri curdi comunisti del Pkk, i ribelli siriani e il presidente Assad, i peshmerga e le milizie sciite, Israele e l’Iran, l’Arabia Saudita e tanti altri. Davvero, come si aspettavano che sarebbe finita?
Questa pulsione suicida collettiva si vede all’opera benissimo nelle strade di Mosul, anzi è la prima caratteristica che dà forma alla lotta per riprendere la città-stato di Baghdadi. I suoi uomini si fanno ammazzare uno a uno piuttosto che cedere un metro quadro di terreno, e si va avanti così. Non è prevista una resa, nessuno spera in una capitolazione, non ci saranno trattati di pace da firmare. C’è soltanto, e piuttosto, una campagna di annientamento che fa il suo corso. Anche gli invasori hanno accettato questa impostazione. Mentre in tutte le altre battaglie urbane contro l’Isis si era scelta una strategia del compromesso, per esempio a Falluja in Iraq e a Manbij in Siria, e si lasciava di solito un lato della città aperto e non sottoposto all’assedio dei soldati, per offrire ai guerriglieri la possibilità di abbandonare il luogo – in questo modo ci si risparmiava la guerra all’ultimo sangue e si provava a salvare la città, pur sapendo che la battaglia si spostava semplicemente altrove – a Mosul invece è stata fatta la scelta contraria, si è deciso di applicare il modello tonnara. Tutti i lati sono chiusi, anche la scappatoia possibile verso l’ovest, verso Tal Afar (una piccola Mosul ancora più incattivita) e tutti gli uomini dello Stato islamico che sono rimasti dentro a combattere resteranno dentro – ma non i leader più importanti, che hanno già abbandonato la versione Isis del bunker di Berlino. Forse una minoranza locale sopravvivrà, perché riuscirà a confondersi fra i rifugiati e la popolazione, ma gli stranieri non hanno questa chance (è per questo che si dice siano i più fanatici, perché per loro non c’è scampo). Gira anche una leggenda metropolitana istantanea su questo: un traduttore che accompagna un giornalista straniero nelle vie di Mosul s’accorge che una donna attraverso la fessura del velo integrale segue con lo sguardo il giornalista, allora si avvicina e scopre che la donna è in realtà un uomo. Il traduttore afferra il suo giornalista per un braccio e fugge via.
Le categorie di soldati suicidi dello Stato islamico sono tre. Gli “inghimasi”, che è una parola che viene dalla radice del verbo arabo “pucciare”, come in “pucciare un biscotto nel latte”, sono gli uomini armati che vanno a infilarsi tra i nemici e tentano di fare il massimo di danni prima di essere uccisi (oppure prima di vincere). Al nasr au al shahada è infatti il motto, vittoria o morte, ma la prima – contando la sproporzione numerica e la mancanza di un’aviazione propria – è da escludere. Gli “istishadi”, che è un termine arabo legato alla figura dello “shahid”, il martire, sono quelli che vanno a farsi saltare in aria contro i nemici a bordo di un veicolo carico di esplosivo, “il loro equivalente approssimativo dei nostri bombardamenti aerei di precisione”, come dicono gli ufficiali americani. Ce ne sono stati più di trecento da quando è cominciata la battaglia per prendere Mosul ed è un numero in aggiornamento. Infine, ci sono i combattenti regolari, che non fanno azioni da commando e non vanno a farsi saltare in aria, ma – in queste condizioni – sono anche loro votati alla morte, a meno che, come si è detto, non riescano a dileguarsi in mezzo ai civili, ma chi avesse voluto farlo lo avrebbe già tentato.
Gli inghimasi li vediamo subito stesi a terra vicino al ponte autostradale che attraversa Mosul e va verso Baghdad, alle porte del quartiere di Dawasa: sono tre uomini vestiti con scarpe da ginnastica – bisogna essere leggeri per andare incontro all’ultimo combattimento – con fucili d’assalto e cinture esplosive. Quelle a Mosul sono comuni da trovare: panetti di plastico in un sacchetto di tela, uno strato di pallini di piombo appiccicato alla tela con una passata di qualche colla resinosa (in modo che, come sappiamo dopo anni di attentati esplosivi, le biglie uccidano e feriscano il più possibile), il tutto infilato in una cinta avvolta a doppio giro nel nastro adesivo e collegata a un cavo di detonazione che arriva a un interruttore difeso da una sicura ad anello – che è come quella delle granate, si strappa l’anello e solo allora l’interruttore può fare contatto. E’ una semplice misura per evitare che gli inghimasi saltino in modo accidentale mentre si siedono o per colpa di una buca in macchina. I tre sono morti da poco, uccisi dalle raffiche mentre entravano nell’androne di una casa dai soldati iracheni che poi procedono subito a tagliare i cavi delle cinture esplosive. Disinnescare anche i morti, questo chiede l’operazione per liberare Mosul. Sono uomini piccoli, se non avessero barbe folte e piene di mosche sembrerebbero bambini.
Dallo stesso ponte autostradale sbucano quattro veicoli corazzati color sabbia con antenne di due metri, sfilano con lentezza davanti alle macchine fotografiche, hanno nomi stampati sulle fiancate, Mikey, Donnie, Leo e Ariel. I soldati iracheni dicono secchi: niente fotografie, e così si fa. Sono le forze speciali americane, che assieme a quelle di altri paesi occidentali – incluse italiane e francesi – sono a Mosul per dare una mano alla liberazione. Da qualche giorno gli americani si sono infilati le tute nere e i caschi beige della Golden Division, il reparto antiterrorismo iracheno, per non dare troppo nell’occhio, ma anche così serve a poco. C’è una specie di convenzione tra gentleman per cui non s’insiste troppo, per adesso.
Gli istishadi, quelli delle autobomba, sono una presenza incombente temuta da tutti. Un istishadi fallito è in una viuzza residenziale di Dawasa, dietro al muro di un giardino, un colpo preciso di qualche calibro maggiore ha sfondato la corazzatura della sua autobomba e gli ha aperto la testa, l’auto è finita contro un palo senza esplodere, lui è fuori a terra. Non ci si può sbagliare, il veicolo anche sotto la corazzatura è una Kia. Quando il gruppo ha conquistato Mosul nel 2014 ha saccheggiato il grande concessionario della casa coreana e ora molte delle autobomba sono Suv della Kia, modificati con l’aggiunta di lastre di acciaio per consentire al guidatore di portare a termine la sua missione, che è arrivare più vicino che può a qualche bersaglio pagante – per esempio una colonna di veicoli dell’esercito che avanza in fila indiana. Questo fermato senza esplosione è un caso raro, giace a braccia larghe fuori dalla macchina, attorno a lui le taniche grigie con gli inneschi elettrici che contengono l’esplosivo. Attorno cadono sporadici e casuali i colpi dei mortai, se uno finisse sull’auto e sulla montagnola di esplosivo sarebbe un guaio, ma rimuovere in fretta tutti i rischi dalle strade di Mosul è un compito che per ora è al di là delle forze. A duecento metri ecco un’altra autobomba, questa invece è molto in movimento e arriva a poca distanza ma c’è un muro di mezzo. Botta, onda d’urto, tutti abbracciati ai pneumatici di un blindato, così grossi e rassicuranti, mentre si alza una colonna di fumo bianco – che vuol dire che l’esplosivo usato era buono, grado militare, combustione rapida – e cadono pezzi di lamiera. “Ce l’ho, ce l’ho”, dice un fotografo mentre segue con la lente le parti di auto che toccano terra e rotolano dietro di noi. I soldati dicono che è stata distrutta da un elicottero mentre faceva a zig zag tra i palazzi per arrivare più vicina e in effetti c’era un elicottero in volo sopra di noi, ma è difficile dire se è andata così (che c’entri qualcosa la presenza discreta degli americani, per l’individuazione e la risposta così rapida?).
Una terza autobomba esplode il giorno dopo, sempre seguendo questa cadenza terrificante per cui c’è da attendersene almeno un paio ogni ventiquattr’ore. Questa attacca in una zona che in teoria è stata già ripulita da un paio di settimane, a circa mezzo chilometro da una piazzola dove i camion dell’esercito iracheno caricano i civili che attraversano a centinaia dalla linea del fronte con un bagaglio sotto il braccio. Fra la gente si sparge subito la voce che avesse come obiettivo proprio loro, che volesse colpire chi abbandona il Califfato in via di rimpicciolimento e quindi è un traditore. Lo Stato islamico ha adottato una tattica stay-behind, lascia alcuni guidatori con le loro autobomba nascosti in qualche garage tra le vie deserte, i soldati che avanzano non riescono a controllare casa per casa, quando è il momento più opportuno gli istishadi escono alle loro spalle a caccia di bersagli e si fanno saltare nel giro di pochi minuti. Spesso erano guidati dai droni dello Stato islamico, che filmano le posizioni a terra e trasmettono a chi è ancora nella parte occupata e che a sua volta fornisce indicazioni via radio, tipo “Esci adesso”. Ma una settimana fa gli americani hanno portato in città un camion che ospita un congegno elettronico che interferisce con le comunicazioni e di fatto ha atterrato tutti i droni islamisti. Alla piazzola dei profughi tutti si stringono nelle spalle. Era lontana, è esplosa alle loro spalle, è andata. Loro sono ormai fuori.
L'editoriale dell'elefantino