Quando i Soros eravamo noi

Rocco Todero

Nel corso del medioevo gli italiani dominarono nella finanza e nel commercio internazionale e per questo motivo furono oggetto d’aggressioni ed ostracismi. Appunti per nazionalisti e populisti

Da molti anni oramai anche in Italia chiunque abbia a che fare con il mondo della finanza e del commercio internazionale è fatto oggetto di contumelie da parte di nazionalisti e populisti d’ogni risma.

 

L’accusa è sempre la stessa: finanzieri, banchieri, gestori di fondi comuni d’investimento, assicuratori e multinazionali manovrano, su e giù per il mondo, cifre di denaro e volumi di merci spropositati, senza alcuna considerazione per le esigenze degli stati nazionali e della sovranità popolare che pagherebbero ciclicamente pegno alla libera circolazione di merci e capitali ed alle diavolerie contrattuali architettate da una pletora di truffatori, con un aumento delle differenze sociali, con una maggiore concentrazione della ricchezza in mano a poche persone e con la distruzione degli investimenti d’ignari risparmiatori.

 

La storia economica dimostra ogni oltre ragionevole dubbio, però, come l’idiosincrasia verso il mondo della finanza e del commercio internazionale abbia colpito un po' tutte le nazioni a seconda di chi siano stati, nel corso dei secoli, i principali attori sul mercato del credito e del debito.

 

Dalla seconda metà del 1200 e sino ai primi decenni del 1500, ad esempio, i protagonisti del mondo economico finanziario parlarono quasi tutti italiano. Veneziani, genovesi, fiorentini, pisani e senesi furono i dominatori incontrastati del commercio e del credito in tutta Europa.

 

Coloro che esercitarono il mestiere di prestatori di denaro ebbero come clienti monarchi, principi e papi (le principali famiglie di banchieri toscani, ad esempio) ed una schiera infinita di piccoli debitori che necessitavano del credito anche solo per sopravvivere (per le esigenza dei quali provvedevano i cosiddetti “lombardi”, come venivano definiti l’insieme dei piccoli finanziatori italiani provenienti per lo più dal centro Italia).

 

Nonostante la diffusa consapevolezza dell’impossibilità d’assicurare l’ordinario svolgimento della vita economica in assenza di banchieri, cambia valuta e semplici prestatori di piccole somme di denaro, i “lombardi” furono fatti oggetto per circa 300 anni d’ingiustificate e violente aggressioni da parte di governanti e popolazioni, che mal sopportarono l’egemonia finanziaria e commerciale che gli italiani si erano conquistati sul campo del mercato internazionale.

 

Da Barcellona, ad esempio, fiorentini, lucchesi e senesi furono costretti a fuggire, prima nel 1265 e poi nel 1421, in seguito all’accusa di avere distorto le attività commerciali per mezzo di contratti di cambio e ricambio.

 

In Francia i “Lombardi” furono perseguitati per un secolo a partire dal 1270 circa. Imprigionati e rilasciati più volte, previo pagamento di un vero e proprio riscatto, mascherato da rinnovo delle concessioni governative per l’esercizio dell’attività di erogazione del credito, furono oggetto delle speciali attenzioni di Filippo il Bello (lo sterminatore dei Templari), che ne sequestrò più volte beni e valori.

 

Nel 1329 Filippo Valois non si limitò ad arrestare gli italiani che esercitavano le attività finanziarie, ma, per assecondare l’insofferenza populista delle classi sociali più irrequiete, iniziò una ricerca spasmodica presso la popolazione di tutte le rimostranze possibili ed immaginabili che avrebbero potuto consentirgli di giustificare la persecuzione dei finanzieri stranieri.

 

Persino a Londra, che non aveva ancora scoperto la propria vocazione commerciale, gli italiani furono accusati di portare via il lavoro agli inglesi, a causa del predomino che conquistarono con l’esportazione di numerosi prodotti a basso costo e in un pamphlet del 1436, “Libelle of Englyshe Policye”, la colpa dei “Lombardi” si fece più esplicita: “Le grandi galee di Venezia e Firenze/Son ben cariche con cose di piacere/Tutte le spezie e altre droghe/Con vini dolci, tutti i tipi di merci/Scimmie e bizzarrie e animali con la coda/Cianfrusaglie, quisquilie di poco valore/E cose con cui accecano i nostri occhi/Con cose che non durano e noi compriamo”.

 

Per ben due volte i londinesi presentarono petizioni al Parlamento inglese per “proteggersi” dalla concorrenza dei produttori e dei commercianti italiani, che inondavano il mercato isolano di lana, nastri, cinture ed ogni altro genere di prodotto tessile, e, per evitare il protrarsi di vere e proprie sommosse popolari che nel frattempo si erano scatenate contro i Lombardi, le istituzioni del Regno furono costrette ad abdicare, ordinando l’allentamento momentaneo dalla capitale di lucchesi, genovesi, veneziani e fiorentini.

 

Furono tempi nel corso dei quali le multinazionali del commercio e della finanza fecero capo alle principali città-stato italiane e chissà se qualche ricco finanziare ebbe mai modo di ripetere quanto, diversi secoli dopo, scrisse nelle sue memorie David Rockefeller per replicare alla solita accusa di sostenere, con le sue attività finanziarie, un internazionalismo capitalista a danno degli interessi dei singoli stati nazionali: “Qualcuno ancora pensa che facciamo parte di una setta segreta che agisce contro i principali interessi degli Stati Uniti, dipingendo e me e la mia famiglia come internazionalisti e accusandoci di cospirare, con altri soggetti sparsi per il mondo, per costruire una struttura politica ed economica più integrata a livello globale; un mondo unico se volete. Bene, se questa è l’accusa, mi dichiaro colpevole. E ne sono fiero”.